Intervista a monsignor Gianni Carzaniga

«Questo virus ci ha riportati alla realtà, non fingiamo più che la morte non esista»

Il punto di vista sul drammatico momento che stiamo vivendo del parroco di Sant’Alessandro in Colonna, prima di Santa Maria delle Grazie e prima ancora rettore del Seminario di Bergamo

«Questo virus ci ha riportati alla realtà, non fingiamo più che la morte non esista»
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di Paolo Aresi

Come sarà il dopo? Come saremo dopo questa piaga biblica che ci ha spaventati, atterriti, frustrati, percossi e commossi? Come sarà il nostro mondo ora che una volta di più sappiamo quanto sia fragile e quanto siano relativi gli onori e la ricchezze? Ne abbiamo parlato con un prete, monsignor Gianni Carzaniga, che tutti chiamano don Gianni, parroco di Sant’Alessandro in Colonna, prima di Santa Maria delle Grazie e prima ancora rettore del Seminario di Bergamo.

Don Gianni, come vede il presente?

«All’inizio, la reazione all’epidemia è stata forte, direi secondo schemi vecchi di protagonismo e superficialità, con tanti slogan e atteggiamenti spettacolari. I canti sui balconi, i disegni, le scritte “Ce la faremo”, “Andrà tutto bene” e via dicendo. Poi ci siamo accorti che questa è una cosa diversa, una vera tragedia. Gli slogan sono diminuiti, è aumentato l’aiuto vero, la solidarietà che vediamo con tanti volontari, con gli alpini, gli artigiani che tirano su l’ospedale alla Fiera in quindici giorni, le donazioni. E allo stesso tempo è cresciuta la giusta preoccupazione per l’oggi, per la malattia e per i morti, e per il domani. Questo realismo mi fa sperare».

Lei è un prete, un cristiano. Come si sente davanti a questa sciagura?

«Domenica ero in basilica, noi preti di Sant’Alessandro abbiamo celebrato la messa. Io, don Tullio, don Nicola, don Gianluca Salvi e don Emanuele Poletti. Abbiamo celebrato la messa della Domenica delle Palme in maniera solenne, davanti alla chiesa vuota. Abbiamo letto le pagine della Passione, ci siamo immersi nel mistero della nostra religione, il mistero di Cristo. La nostra fede conosce bene il dolore, l’aspetto tragico della vita. Il nostro Dio si è fatto uomo, è stato tradito, flagellato, deriso e poi è stato inchiodato a una croce. Lui sa bene che cosa sia la sofferenza».

Che senso ha dire messa in una chiesa vuota?

«Ribadiamo il sacrificio di Gesù, anche da soli, siamo comunque testimoni, anche se in chiesa ci fossi stato solo io. Un testimone o mille testimoni, comunque la sostanza non cambia, il senso è lo stesso. Mi viene in mente un’intervista al patriarca di Mosca durante il comunismo, in Unione Sovietica. Gli chiesero che cosa facesse la Chiesa in una società atea. Lui semplicemente rispose: “Celebra la divina liturgia”. In altre parole: porta avanti la testimonianza. Le vicende del mondo passano, il comunismo è finito, ora c’è Putin, ora c’è il coronavirus, abbiamo Trump... tutto passerà. La fede andrà oltre».

Questi sono giorni di grande dolore.

«Certo, la morte è entrata con prepotenza nella quotidianità, il mondo ha rallentato, si è quasi fermato, siamo sospesi. Questi tre giorni rappresentano il cuore del Cristianesimo. In questi giorni arriva a compimento quel messaggio che ha iniziato a segnare il cambiamento della storia, tra il prima e il dopo Cristo. È stato un seme che, con fatica, ancora oggi si sta sviluppando. Il seme di un mondo nuovo. Un seme d’oro che il Padre ha posto nella storia, che sta cercando di modificarla. È la civiltà dell’amore che vuole sostituire quella della violenza e della sopraffazione. È un passo evolutivo fondamentale per l’umanità. Questi sono i giorni del dolore, a volte il dolore non è solo tragedia, è anche un passaggio».

Che cosa resterà di questa terribile esperienza?

«Stiamo cambiando, siamo già cambiati. Constato le attenzioni delle persone, parrocchiani che non vedo mai che mi telefonano per chiedermi come sto, i legami si approfondiscono, anche a livello di parentela. Le telefonate si fanno più lunghe, i messaggi più corposi... la gente si aggrega, discute, si accarezza anche soltanto via Whatsapp o via Facebook o Internet in generale... Noto anche quanto si rifletta sulle persone che muoiono, si scopre che ciascuna persona era importante, che ognuno faceva qualche cosa di bello per gli altri...».

Per decenni la nostra cultura ha cercato di nascondere la morte. Adesso è impossibile.

«Già, la morte ha invaso le case, le strade. È come un’antica pestilenza, qualcuno ha rievocato la peste del 1630. Quella fu ben più tragica, ma il paragone regge. Adesso comprendiamo facilmente il perché venivano dipinte le Danze Macabre durante il Medioevo. Perché si diceva “sorella morte”. La morte è tornata accanto a noi come un elemento normale della vita, come un’altra faccia dell’esistenza e non un fatto angosciante per forza da nascondere, da fare finta che non ci sia. Da rimuovere. Nelle danze macabre, come quella di Clusone, appaiono tutti gli uomini, straccioni, ricchi, mercanti, nobili, re... tutti sono accompagnati dalla morte, dallo scheletro che invita a danzare. Perché la vita è una danza, in fondo, e la morte sta sempre accanto a noi e ogni giorno può decidere di prenderci e di portarci via. Noi questo facciamo finta che non esista, ma forse adesso siamo diventati più realisti. La morte ci sta accanto, accettiamolo, senza disperazione. È realtà».

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