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È proprio in questi tempi difficili che dobbiamo essere più altruisti

È proprio in questi tempi difficili che dobbiamo essere più altruisti
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C’è chi salva una vita mettendo a rischio la propria, chi si sottopone a un pesante sacrificio pur di fare del bene a un'altra persona, chi invece sceglie di fare piccoli gesti di quotidiana solidarietà. Per tutti questi atti, il comune denominatore è la mancanza di una ricompensa, caratteristica fondamentale per differenziare i cosiddetti “buonisti” dai veri altruisti, che agiscono preoccupandosi degli altri senza chiedere niente in cambio.

 

 

Una definizione che è stata studiata nel dettaglio da un gruppo di ricercatori, che ha pubblicato la ricerca sull’Evolutionary Psychology. A loro avviso, quattro sono le forme di altruismo: dall’entrare in un edificio in fiamme per salvare qualcuno al fare una donazione consistente, dall’offrire una fetta di torta a uno sconosciuto fino a prestare il proprio ombrello a un vicino. Nelle prime tre forme, le discriminanti sembrano essere il rischiare la propria vita e il condividere cose proprie. Nel quarto caso (il cosiddetto «altruismo quotidiano condizionato»), invece, si compie un gesto generoso aspettandosi di ricevere (prima o poi) una ricompensa. E se è vero che siamo più propensi a essere altruisti con chi ci sembra più simile a noi o con chi appartiene alla nostra comunità, lo spettro di persone con le quali saremo in grado di essere in empatia si allarga quanto più la nostra definizione di comunità è inclusiva. Chi esprime il più alto grado di altruismo, poi, ha anche la maggiore preoccupazione empatica verso gli altri, cosa che gli permette di avere una più ricca rappresentazione degli stati emotivi del proprio prossimo.

L’altruismo, del resto, viene spesso legato ad esigenze biologiche, come la necessità di conservazione della specie, che ci spingono a fare del bene agli altri per permettere alla nostra comunità di “durare”. Se, poi, per alcuni (come il filosofo Comte) l’altruismo è istintivo e ci spinge a cooperare per favorire la conservazione della specie, secondo altri l’altruismo sarebbe da ritrovare solo in chi ci sta molto vicino (i nostri familiari, per capirci). Vero è anche che l’altruismo è strettamente connesso ad alcune specifiche aree del cervello, che, se danneggiate, riducono la capacità di esprimere empatia. Proprio l’empatia, e la connessa capacità di provare altruismo, secondo uno studio condotto oltreoceano può portare a vivere più a lungo. Lo hanno scoperto i ricercatori della Buffalo University, attraverso uno studio compiuto su 865 persone over 65, studiando le reazioni dei partecipanti rispetto a una serie di eventi stressanti. A quanto pare, per le persone abituate a essere altruiste si attivano delle specie di “ammortizzatori” che permettono di gestire meglio i traumi, riducendo il tasso di mortalità nei cinque mesi dall’evento. È infatti confermato che l’altruismo accresce il livello di endorfine, che donano una sensazione di soddisfazione e gratitudine per quello che si ha aiutando a ridimensionare i problemi e a vivere più a lungo. Concreto è, d’altro canto, il rischio burnout di chi agli altri si dedica troppo.

 

 

Cosa succede, però, in tempi “bui” come quelli odierni? Secondo il filosofo americano Mark Nepo, sono proprio questi i momenti in cui l’altruismo può prosperare, grazie a un meccanismo che vede tutti gli uomini “interconnessi”, come se fossero un bosco di alberi. A confermare questa teoria c’è l’altissimo numero di persone che in Italia praticano volontariato: circa una persona su dieci che, in modi diversi (dal fornire lezioni di lingua al donare il sangue), si adopera per condividere quello che ha e aiutare gli altri quanto possibile.

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