Si chiamano "viri probati"

Sposati o vedovi saranno preti? La rivoluzione parte dal Brasile

Sposati o vedovi saranno preti? La rivoluzione parte dal Brasile
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Prelatura di Xingu, la più estesa del Brasile: 700.000 fedeli, 800 comunità, 27 sacerdoti. Non c’è bisogno di spiegare molto. Basta fare due conti: non ce la si fa proprio, neanche mettendo a ruolo la bilocazione dell’intero clero. Il vescovo mons. Kraütler ne ha parlato al Papa nell’aprile scorso. Si legge sul sito Terre d’America

Nel ventaglio delle possibili soluzioni il colloquio con il Santo Padre ha toccato anche il tema spinoso dei “viri probati”, uomini di fede e virtù comprovata, autorevoli e rispettati all’interno di una determinata comunità. Vedovi o sposati con figli adulti, in grado di provvedere autonomamente al proprio mantenimento, potrebbero essere “ordinati preti” in tempi relativamente brevi. Per gli sposati, poi, il consenso della moglie sarebbe un’altra conditio sine qua non. I “viri probati” verrebbero dapprima chiamati ad un ministero circoscritto, pastori di piccole porzioni di comunità, ma in un futuro, se l’esperienza si rivelasse all’altezza delle necessità come sperano i suoi propugnatori, il campo d’azione potrebbe estendersi come le loro stesse responsabilità.

Magari fosse. Sarebbe un salutare ritorno alle origini in un mondo - Mato Grosso, Parà, la selva amazzonica - che per certi versi viene ancora prima delle origini del cristianesimo. Il tempo non è compattamente lineare, come si crede: molti tempi diversi convivono - con ritmi diversi - nella stessa unità di tempo. La Chiesa lo sa molto bene.

E lo sa anche l’ottantenne e sempre vivace cardinale Claudio Hummes, arcivescovo emerito di San Paolo, il francescano che, abbracciando papa Bergoglio appena eletto gli ha detto "Non dimenticarti dei poveri!" e che già nel 2006 si era esposto in favore del sacerdozio agli sposati ricordando che il celibato è una disciplina, non un dogma della Chiesa.

Il che fa una bella differenza, perché le discipline si possono cambiare. Il Papa stesso aveva accennato in pubblico al “modello Messico”, che presenta significative affinità con la situazione brasiliana.

In una diocesi con carenza di sacerdoti sarebbero più di 300 i diaconi che collaborano nelle pratiche di assistenza spirituale, con l’unico vincolo di non poter celebrare la Messa la domenica con i fedeli. Questi diaconi sposati, che hanno già ricevuto una prima consacrazione, potrebbero però essere chiamati al sacerdozio attraverso una sorta di “aggiornamento” della consacrazione.

E forse c’è di più, in questa sollecitazione che ci viene dalla povertà di popolazioni chiamate a saldare la sfasatura tra la postmodernità cui si affacciano e l’archeologia della loro condizione. Come ha detto un grande psichiatra italiano, i sofferenti - parlava dei sofferenti mentali - esistono per portare su di sé amplificata, in modo che risulti visibile a tutti, una condizione che si potrebbe altrimenti continuare a far finta di non vedere per non doversene curare. La prelatura di Xingu - con la sua estensione, la sua popolazione, la scarsità di preti - potrebbe avere un compito analogo: far da amplificatore alle sofferenze cui sono esposte le comunità cristiane nelle nostre regioni postcristiane a causa di una carenza di sacerdoti la cui gravità è forse sottostimata da chi probabilmente ha sott’occhio solo i numeri.

Quando eravamo bambini, delle popolazioni amazzoniche si prendeva coscienza fondamentalmente nei musei di antropologia o tramite i racconti al limite del mitologico dei missionari. Poi venne Lévi-Strauss e venne National Geographic che ci mostrava indios nudi con le infradito giapponesi, il transistor in spalla e l’amaca sullo sfondo. Se, come ha detto il cardinal Hummes “La chiesa moderna deve tener conto di questo aspetto [del fatto che una volta esistessero i preti sposati] se vorrà essere al passo con la storia” il lavoro non sarà né breve né semplice, soprattutto perché neanche la storia è più quella di una volta.

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