La volta che il senatore Li Causi gridò "porco" per 14 minuti filati
Lettore assiduo e affezionato di Bergamopost, mi trovo a dover lamentare - nel vostro articolo intitolato “Sarebbe la Camera dei deputati (sembrava un match a Las Vegas)” - il paragone affrettato della nostra Camera dei Deputati con uno dei più celebri ring del mondo. Un bel libro uscito l’anno scorso: Storia dell’insolenza. Offese, insulti e turpiloquio nella politica italiana da Cavour a Grillo, di Antonello Capurso (Ed. Il settimo libro) inviterebbe a pensare che il paragone dovrebbe esser fatto tra la stessa Camera e il Parlamento italiano, di cui costituisce un ramo, costituzionalmente parlando.
Il libro, scritto molto bene, è interessante perché non si limita ad elencare quanto promesso dal titolo, ma approfondisce magistralmente il nesso che insulti e contumelie hanno intrattenuto - nel corso degli anni - col clima sociale e politico in cui sono fioriti. Ve ne invio due stralci: il primo è un quadro che raffigura i momenti che precedettero l’adesione del nostro Paese alla Nato, nel 1949. Il secondo, posteriore di quattro anni, è il filmato della conclusione parlamentare della cosiddetta “legge truffa”, che avrebbe comportato un consistente premio in seggi per il partito che avesse vinto le elezioni.
Buona lettura
L’onda lunga delle elezioni del ’48 aumenta inevitabilmente le tensioni. Meno di un anno dopo, il 18 marzo 1949, si vota l’adesione dell’Italia alla Nato. De Gasperi prende la parola in una «arena da circo» e viene interrotto trentadue volte, apostrofato come «buffone» da Togliatti, «traditore» da Amendola, «bugiardo» da Antonio Giolitti, «servo» da Giancarlo Pajetta, «chierichetto» da Lelio Basso. Al termine del discorso i rispettivi schieramenti cantano L’Internazionale e l’inno di Mameli. Il dibattito si conclude dopo cinquantuno ore ininterrotte di insulti, che i resoconti sintetizzano come «tumulti», oppure «violenti scontri» quando qualche cassetto vola da una parte all’altra dell’emiciclo. Ma allorché la presidenza proclama l’esito favorevole alla Dc del voto, il comunista Giuliano Pajetta si lancia «a catapulta», così come è scritto nel resoconto, contro un collega, dando inizio a un gigantesco parapiglia che il presidente dell’aula, Giovanni Gronchi definisce «uno spettacolo da facchini di piazza». Il resoconto della Gazzetta del Mezzogiorno: «Venerdì 18 Marzo. Da tre giorni, ininterrottamente, si discute a Montecitorio il testo dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Sono tutti sfiniti. Per due giorni e due notti i rappresentanti al Parlamento di 46 milioni di italiani si sono nutriti di panini e di bibite. Alcuni hanno dormito sui divani del lungo salone dei passi perduti, altri, addirittura sui banchi della stessa aula.
Ad un certo punto poiché Malvestiti gesticolava con animazione, qualcuno ha creduto che volesse lanciarsi contro Santi Filippo Neri Semeraro. I comunisti si sono gettati in massa nell’emiciclo, mentre i democristiani tentavano di arginare l’attacco. Semeraro, nella furibonda rissa trova i compagni al suo fianco, mentre Giancarlo Pajetta inveisce, ormai afono, contro il centro. Ad un tratto, l’altro Pajetta, Giuliano, con un salto acrobatico piomba disteso sulla massa. Pugni gli piovono addosso. Rimettendosi in piedi, Giuliano Pajetta attacca a sua volta. Ma non basta. Da sinistra, uno dei cassetti degli scanni lanciato da un comunista va a cadere sulla massa umana che si aggroviglia sempre più fra urla e grida altissime, invano trattenuta dagli atletici commessi e questori, travolti essi stessi dalla spinta che incalza da tutte le parti. Da destra si sostiene la pressione».
Non molto diversa la cronaca del Corriere della Sera: «All’improvviso ecco balzare alto sulla mischia il comunista Giuliano Pajetta che, partito come un razzo dal terzo settore, con tre balzi aerei, da un settore all’altro, è piombato a tuffo nel groviglio di teste, braccia e gambe e in quel groviglio sparisce inghiottito…». pag 89-90
Il 29 marzo [1953] giorno del voto finale in Senato, i tumulti diventarono guerra. Per un’ora gli instancabili senatori della sinistra sbatterono con forza le tavolette dei leggii e dei cassetti in un frastuono assordante, mentre una parte di loro, la più giovanile ed esuberante, va all’assalto dei banchi di presidenza e del governo, difesi a falange da commessi e questori. Tra i primi a farne le spese l’altrimenti signorile Celeste Negarville, deputato togliattiano detto “il marchese” per la sua classe ed eleganza. Negarville, liberatosi agilmente dei difensori, inizia ad arrampicarsi su per una colonnina che regge il banco del presidente Meuccio Ruini, ma la scalata è ardua e i commessi riescono a tirarlo giù come possono, cioè afferrandolo per i calzoni, fatto che lascia il distinto senatore letteralmente in mutande. In sua vece, tuttavia, il comandante partigiano del Pci Cino Moscatelli e il socialista Mario Berlinguer riescono nell’impresa e balzano sul banco della presidenza, dal quale sono subito allontanati a forza.
Il ministro Randolfo Pacciardi nel frattempo rimane ferito da un calamaio volante che gli frantuma gli occhiali, il comunista Giuseppe Alberganti corre a farsi medicare in infermeria numerosi graffi al volto, e il partigiano comunista Girolamo Li Causi scandisce con voce baritonale, che sovrasta ogni clamore: «Por-co! Por-co! Por-co!» all’indirizzo del settantaseienne Ruini, che stoicamente presiede. Un giornalista in tribuna stampa si prende la briga di constatare che Li Causi grida «por-co», in stato di trance e senza mai fermarsi per quattordici minuti filati.
Da una parte all’altra dell’emiciclo, chi non partecipa direttamente alla rissa si scambia gli epiteti più coloriti: «Venduto, carogna putrida, mascalzone, brigante, assassino, iena». La senatrice del Pci Adele Bei grida eccitatissima: «Sudicione!», poi, a sua volta aggredita, mena sberle a chiunque gli capiti a tiro, compreso per equivoco al socialdemocratico Nino Mazzoni, corso invece in suo aiuto. […]
Alle ore 15.55 del 29 marzo 1953, al termine di una seduta continuata di 77 ore e 50 minuti, la legge è approvata. Il nuovo e mite presidente del Senato, Meuccio Ruini, sta per lasciare l’aula, sorretto da Giorgio Tupini, quando un pezzo di tavoletta, divelta dalle iraconde mani del comunista Giuseppe Menotti, vola e lo colpisce alla nuca. Un attimo, e gli arriva addosso anche una manciata di monetine, lanciate da Pietro Secchia, che gli urla: «Eccoti i trenta denari, Giuda, venduto!», mentre Umberto Terracini specifica: «Lei è un brigante, non un presidente!», e Sandro Pertini conclude: «Lei non è un presidente, è una carogna, un porco!». Ruini, raggiunti i suoi uffici, si accascia piangente su una poltrona.
Alla fine, secondo la sintesi del Borghese, «centodieci senatori, in sessanta minuti di gazzarra, si sono resi responsabili dei seguenti reati: ingiuria, diffamazione, violenza privata, minacce, percosse, lesioni, tumulti, distruzione di pubblici documenti, istigazione a delinquere, vilipendio al governo, oltraggio al Parlamento e attentato contro gli organi costituzionali. Se invece di centodieci senatori si fosse trattato di centodieci cittadini qualunque, questi sarebbero stati condannati, complessivamente, a centocinquant’anni di galera». pag. 103-105