Una biografia "strana"

Alborghetti, il (bravo) giornalista che si è messo a tavola con il Papa

Alborghetti, il (bravo) giornalista che si è messo a tavola con il Papa
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Roberto Alborghetti è un giornalista e scrittore bergamasco. Ha 63 anni, è sposato ed è padre di una figlia, risiede ad Ambivere: «Ma ci sto poco, ormai». Partito dalla vecchia Domenica del Popolo, per molti anni ha lavorato a L’Eco. Si occupava di cose che tanti giornalisti non considerano giornalismo: Cartolandia, ad esempio, l’ha inventata lui. Un’idea che funziona ancora a distanza di vent’anni e ha coinvolto generazioni di alunni. Le iniziative di Alborghetti sono diventate anche fortunati programmi su Bergamo TV (era uno dei volti più noti) e su Radio Alta. Ma a un certo punto capì che tutto quel darsi da fare non interessava più ai vertici del giornale e decise di andarsene, senza paracadute. Caso più unico che raro. Da allora si è messo a scrivere libri agiografici sui santi, sui preti, compreso monsignor Nicoli, il “Marcinkus bergamasco”, del quale ha offerto una lettura diversa dalla narrativa comune, e sui temi educativi. I due libri più fortunati di questo filone sono racconti per ragazzi che riguardano l’uso dei telefonini e il faIr play nello sport. Ha anche ideato una rivista che si chiama Okay e che vanta la bellezza di 550mila follower. Alborghetti è un brillante giornalista cattolico cresciuto in oratorio. Risultato: passa la vita, oltre che a scrivere, a fare incontri e dibattiti nelle scuole e nelle parrocchie. Nell’ultimo anno ha incontrato 35mila ragazzi in tutta Italia. Non è pentito di aver lasciato il giornale: «Magari lavoro di più, ma la mia vita la decido io». Qualche mese fa, incuriosito dal fatto che ogni domenica al termine dell’Angelus il Papa augurasse urbi et orbi “Buon pranzo”, ha avuto l’idea di scrivere un libro sul cibo visto da Papa Francesco. Il libro, edito da Mondadori, è diventato un fenomeno editoriale già tradotto in una decina di lingue e al quale hanno dedicato articoli e recensioni i grandi giornali e i siti di mezzo mondo, dalla Frankfurter allgemeine a La Croix, da Aleteia a Repubblica al Corriere della Sera. In fondo, come ha detto Ermanno Olmi, Papa Francesco è «come il pane fatto in casa».

 

 

Roberto, questo non è il tuo primo libro su Papa Francesco.
«È il sesto. A parte la grande biografia della Velar, ne ho scritto uno sull’educazione (con l’Agesc), un altro sulla dignità del lavoro, un altro ancora sull’inclusione sociale recuperando i suoi cavalli di battaglia come gli interventi contro la tratta delle persone. Tutti temi già sviluppati prima di diventare Papa. Il penultimo si chiama La misericordia all’improvviso sulle visite a sorpresa che ha fatto durante il Giubileo. Il personaggio è questo: il Vaticano gli sta molto stretto».

Ma tu lo conosci così da vicino?
«L’ho incontrato alcune volte, ma è sempre stato più interessato a conoscere me che a raccontarsi. Quando è uscito il primo volume siamo stati insieme parecchio. Voleva sapere di Bergamo, di Papa Giovanni, che porta nel cuore. Gli abbiamo regalato un’edizione particolare dei Promessi Sposi, un libro che lui ama molto».

Che idea ti sei fatto di lui?
«Papa Bergoglio è un personaggio difficile da inquadrare politicamente e ideologicamente, perché “è al di là”, oltre. È un uomo che suscita ancora delle domande».

E come ti è venuta l’idea di “metterti a tavola” con lui?
«Questo è un libro particolare, una sorta di biografia raccontata attraverso il tema del suo rapporto con il cibo. Avevo scritto un testo sulla sua devozione per San Gaetano da Thiene, patrono del pane e del lavoro. Tutto è cominciato da lì e ho pensato di indagare il tema del mangiare che in lui ha mille sfaccettature».

In che senso?
«Per Papa Francesco il cibo è importante non solo come alimento, ma per i molti significati di tipo religioso e culturale e poi c’è la sua strenua battaglia contro gli sprechi alimentari, per la lotta alla fame, la sostenibilità e l’equilibrio delle risorse, temi che si collegano in parte all’enciclica Laudato si’».

Nei suoi discorsi il Papa usa spesso metafore facendo riferimento al cibo.
«Sì, i discorsi sul sale, ad esempio, sono bellissimi. E dietro alle sue parole c’è una lunga tradizione, la sua storia e perfino i suoi studi. Non dimentichiamo che è diplomato in chimica dell’alimentazione».

Ripercorriamo allora qualche della storia del Papa ai fornelli.
«A insegnargli a far da mangiare è stata la mamma, rimasta semi-paralizzata partorendo l’ultima figlia. Non potendo mettersi ai fornelli, lei dirigeva Jorge Mario in cucina. La nonna poi gli ha trasmesso la grande cultura del cibo piemontese: la bagna cauda, il risotto alla piemontese. E l’attenzione al recupero degli avanzi che era tipico delle famiglie italiane emigrate. Gli ha insegnato, cioè, come un avanzo poteva essere reinventato anche il giorno dopo. Un modo di vivere il cibo che è anche il modo di vivere la vita. Alla fine ho dovuto impostare il libro proprio come il racconto di un’esistenza e quello che ne esce è l’umanità di Francesco, che è poi quello che più colpisce di questo Papa».

 

 

Lui ha fatto tesoro degli insegnamenti di mamma e nonna?
«Quando era rettore all’istituto San Miguel dei gesuiti e la domenica mancava la cuoca preparava lui il pranzo agli studenti. Padre Scannone, uno dei maggiori teologi argentini, racconta che Bergoglio cucinava il maialino ripieno come nessun altro. Nel collegio aveva anche realizzato un allevamento di porcellini. Ed era lui per primo che andava a governare i maiali. Per capire se uno studente era umile e disponibile al servizio, lo metteva alla prova affidandogli la cura del porcile».

Ma che rapporto ha il Papa con il cibo?
«Di estrema semplicità. Anche quando affronta viaggi si premura sempre di raccomandare a chi lo invita di non strafare, di non preparare cose che poi verrebbero sprecate. È tutto nel segno dell’essenzialità. Anche in casa Santa Marta mangia quello che passa il convento. Alla sera, se non c’è l’inserviente, prende il suo vassoio e si serve da solo. A volte va a pranzo nella mensa dei dipendenti del Vaticano mettendosi in coda come tutti gli altri».

Il libro ha avuto un’accoglienza straordinaria.
«Ne è uscito un racconto che non immaginavo e ha sorpreso pure me. Mentre impostavamo il libro, anche gli editori si sono accorti di avere tra le mani qualcosa di sorprendente: man mano che andavo avanti aumentavano anche le pagine e il progetto è stato stravolto più volte. Mondadori appena l’ha visto se lo è accalappiato e i grandi marchi editoriali di tutto il mondo se ne sono aggiudicati i diritti: in Francia è uscito con Bayard, in America Latina con Larousse».

L’idea è nata a Parma da Food editore.
«Sì, sono stati loro a svilupparla e sono arrivati a me. All’inizio ero perplesso: come si fa a tirar fuori un libro da ciò che il Papa dice del cibo? Invece poi mi è venuto in mente tutto quello che in realtà avevo già incontrato».

Quali sono le pagine più belle?
«Non saprei proprio... dipende sempre da come uno le legge. Se, ad esempio, cerca un aspetto sociale sarà colpito dal tema della sobrietà».

Qual è la cosa che ha colpito di più te?
«Il mondo che Bergoglio ha costruito nella Casa Santa Marta, in questa sorta di Vaticano 2 (non so se si può definire così). Lì c’è stata veramente la sua rivoluzione. Al’inizio è stato uno choc, c’era un via vai di gente, con i vescovi che arrivano e si imbattevano nel Papa che era lì come uno qualsiasi di loro. Una sera alle nove l’allora vescovo di Cosenza si presentò stanchissimo alla reception trascinandosi appresso il trolley. Il Papa stava uscendo dalla mensa, lo vede e gli fa: “Da dove viene”?. “Cosenza”, rispose l’arcivescovo. “Ah, la Calabria, allora ha fatto un lungo viaggio”, commentò Bergoglio. E indicandogli la sala da pranzo proseguì: «Non si accontenti del sorriso del Papa: entri a cenare prima che chiudano le cucine». La mattina dopo il vescovo trovò alla reception un biglietto con scritto: “Urgente”. Dentro c’era l’invito del Papa a cena “questa sera alle 20 nella sala da pranzo di Santa Marta». Papa Bergoglio è così, imprevedibile. Una volta ho cercato di sapere se è vero che esce anche di notte, ma la risposta del suo elemosiniere è stata: “Che senso ha chiedersi se il Papa va a incontrare i senzatetto nelle strade di Roma, quando ai clochard ha aperto il Vaticano?”. In effetti è così: spesso il Papa fa colazione con alcuni poveri, i primi che si incontrano intorno a piazza San Pietro e i compleanni li festeggia pagando pizzate a due o tremila persone. Per lui il cibo è un momento di incontro, di condivisione, proprio come accadeva nei racconti del Vangelo».

 

 

Neanche tu avresti mai immaginato tanta ricchezza di spunti.
«Mentre appuntavo le cose mi chiedevo: dove mi sta conducendo questo lavoro? Ed è questa la cosa che più ha affascinato le persone che lavoravano con me, compresi gli illustratori coi quali abbiamo anche ricostruito le ricette».

Che cosa ne hai concluso?
«Che in questa era di masterchef, in cui il cibo gode di un’attenzione perfino eccessiva (accendi la televisione e trovi sempre qualcuno ai fornelli), in questi anni in cui il cibo è mitizzato, il mangiare, di fatto, è stato desacralizzato. E paradossalmente sono aumentati i disturbi legati all’alimentazione. Lo si vede soprattutto nei bambini e nei ragazzi, il cui rapporto con il cibo è spesso problematico. Ebbene, il Papa rende di nuovo sacro il cibo. Lo considera una benedizione di Dio. Come i miei nonni che se cadeva una briciola da tavola mi invitavano a raccoglierla e baciarla in segno di rispetto. Mi insegnavano a non scherzare mai col cibo. Oggi siamo capaci di preparare piatti sempre più complicati ed elaborati, ma si è persa l’essenza del mangiare e del bere».

Nel libro ci sono anche le citazioni del Papa su questi argomenti?
«L’ultimo capitolo è una ricostruzione delle frasi sul cibo utilizzate nelle sue omelie e nei suoi interventi. Con affermazioni anche divertenti, come quando parla dei cristiani malinconici che sembrano cetriolini sottaceto».

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