Ceo dell'aeroporto di Orio

Bellingardi, ovvero Mister 2016

Bellingardi, ovvero Mister 2016
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Nato a Sesto San Giovanni, 57 anni, sposato con Paola Brambilla e padre di un figlio di 29 anni. Risiede a Pogliano Milanese, un paesino appoggiato sulla statale del Sempione, vicino a Lainate. Diplomato all’Istituto tecnico per il Turismo, parla fluentemente tre lingue. Nell’ultimo anno delle superiori ha fatto un lungo stage in una compagnia aerea e «da lì è cominciato il mio innamoramento nei confronti di questo mestiere». Bellingardi ha sempre lavorato nel campo del trasporto aereo, partendo da semplice impiegato agli Aeroporti di Milano, come addetto all’ufficio oggetti smarriti di Linate. Da lì si è sviluppata una carriera «entusiasmante», tutta interna, fino alla scelta decisiva, nel ‘98, di seguire Sea nel progetto di apertura di Malpensa, prima come capo duty manager poi come dirigente di una società di servizi emanazione della Sea che operava a Linate e Malpensa. Nel 2006 è stato chiamato a Bergamo dal presidente Ilario Testa come chief operating officer. Due anni fa, con l’uscita di scena del direttore generale Mentasti è avvenuto quello che definisce «un naturale cambio della guardia». Trascorre le vacanze estive e di Natale in una casa di famiglia a Castione della Presolana.

 

 

La definiscono uno dei tre maggiori esperti di aeroporti in Italia.
«È un giudizio un po’ esagerato. Faccio parte di una generazione che ha avuto ancora la fortuna di comprendere la ragione principale dell’esistenza di un aeroporto. In un aeroporto confluiscono tanti soggetti diversi, passeggeri, compagnie aeree, la società di gestione, la dogana, i servizi, gli enti di Stato e così via. Quindi bisogna coordinare in modo da rendere produttivi gli interessi di tutti. La vecchia generazione, però, ha avuto il difetto di non creare degli eredi. Io quello che ho imparato l’ho sempre dovuto rubare».

Insisto: Michael O'Leary, il geniale patron di Ryanair, che di aerei e aeroporti se ne intende di sicuro, l’ha definita: “Best airport manager ”, il numero uno.
«Credo di poter dire anch’io di lui la stessa cosa. Buona parte della reciproca soddisfazione vien dal fatto che siamo riusciti entrambi per le nostre aziende a ottenere dei buoni risultati, lavorando insieme. Lui ha fatto molti più soldi, però anche noi non possiamo lamentarci. Con O'Leary ho la fortuna di avere un ottimo rapporto personale. È un uomo che sul tavolo del business non fa sconti a nessuno e spesso con lui di fronte mi sono trovato in difficoltà. Però quando ci si allontana da quel tavolo e si comincia a parlare personalmente delle nostre cose, viene fuori una persona di grande spessore: umanamente ho avuto da lui soddisfazioni che non ho avuto da nessun altro».

Possiamo dire che Bellingardi è l’erede di Ilario Testa?
«A essere sincero, il mio rapporto con Testa si è approfondito soprattutto dopo la sua uscita dalla Sacbo. Nei due anni seguiti al suo “pensionamento”, Ilario mi è stato molto vicino, mi ha dato consigli preziosi, e buona parte delle decisioni le ho prese condividendole prima con lui».

 

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Qual è la sua qualità migliore sul lavoro?
«Il rispetto dei miei collaboratori».

Che di lei dicono: è un manager serio e riflessivo, mai sopra le righe.
«Ho imparato a parlare sempre di quello che si è fatto e non di quello che si farà. E questo ti abitua a rispondere con ponderatezza. Quanto alla serietà, mi piace scherzare, ridere e ho un rapporto molto affettuoso con i miei collaboratori».

Dicono anche che lei è bravo nel risolvere i problemi.
«Quando ti trovi a gestire l’apertura di un aeroporto come quello di Malpensa, esperienza dura e difficile, alla fine impari che l’obiettivo della giornata è quello di risolvere le questioni. Poi man mano che il ruolo si è elevato ho dovuto dedicare sempre più tempo alla pianificazione e alla programmazione. Però io valuto una persona in base alla capacità, nel momento in cui mi espone un problema, di andare velocemente alle proposte risolutive. Chi si sofferma troppo nel descrivere come mai siamo finiti in una determinata situazione o passa tanto tempo a ricercare il colpevole, piuttosto che la soluzione, secondo me è un “mo - violista”, uno a cui piace guardare la moviola del giorno dopo, ma non è un bravo professionista».

Perché Malpensa non ha avuto successo e Orio sì?
«Sono due lati della stessa medaglia. Malpensa non ha avuto successo perché nessuno ha creduto in quell’aeroporto, nessuno l’ha mai amato, a cominciare dall’azionista che fisicamente risiede lontano. Non gli ha voluto bene neppure il sistema Paese, che non ha capito quanto era importante dotare il Nord Italia di una rete di collegamenti intercontinentali e non ha aiutato la compagnia di bandiera a progettare il proprio futuro concentrandosi su questo scalo. Voler mantenere, per consenso elettorale, la compagnia basata su tre aeroporti, Fiumicino, Malpensa e Linate, ha massacrato il sistema dei costi di Alitalia, che ancora oggi non riesce a trovare una soluzione. Oggi Malpensa si trova di fatto a fare il clone di Bergamo: gli ultimi eventi importanti sono stati Ryanair e il posizionamento di Dhl».

Non vede in questo un rischio per Orio?
«Né per Orio né per Malpensa, perché sia Ryanair che Dhl trovano nutrimento in un territorio in cui possono convivere entrambi gli aeroporti. Malpensa però era nato con un’idea diversa, e penso ancora che il Nord Italia abbia bisogno di un aeroporto che fornisca collegamenti intercontinentali, perché è un asset indispensabile per il sistema economico».

 

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Alcuni sostengono che se non ci fosse stato Bellingardi le scelte strategiche fondamentali per Orio non sarebbero state messe sul tavolo.
«Sì, è vero. Talvolta anche in modo un po’ incosciente le ho poste sul tavolo, però non si sarebbero mai portate a compimento senza dei grandi presidenti e senza degli azionisti che non ci hanno mai, davvero mai, negato il loro sostegno. Io posso dire di aver proposto quello che andava fatto, ma senza di loro, non avremmo realizzato niente. Ci hanno sempre seguito, talvolta anche affrontando grandi difficoltà, perché si può facilmente immaginare, ad esempio, che il Comune di Bergamo abbia avuto il suo bel da fare a spiegare ai propri cittadini le ragioni per le quali ha accettato alcune decisioni impopolari».

Le dà fastidio quando qualcuno dice che il successo dell’aeroporto di Bergamo è un miracolo?
«Tantissimo. Perché so quanta fatica ci sta dietro e quante lacrime, sorrisi e dolori della mia gente sono stati necessari per arrivare fin qui. Il Signore si occupa di fare i miracoli per cose più importanti degli aeroporti. Orio è arrivato dove è arrivato per il grande impegno e per la professionalità dei miei collaboratori ».

Il lavoro di squadra per lei è tutto.
«Sì. È indispensabile. Sono solo i sognatori o gli imbecilli che credono di poter fare tutto da soli».

Ma cos’hanno di tanto determinante i suoi collaboratori?
«Sono molto umili. Ascoltano, imparano, si confrontano, ma poi quando è il momento di tirar fuori le competenze e le conoscenze lasciano tutti a bocca aperta. È successo anche recentemente in America».

Sono umili, competenti, e poi?
«Già nei primi giorni ho visto che in loro c’era una grande capacità di autonomia decisionale. Il livello di questioni su cui venivo coinvolto operativamente era esclusivamente quello alto. Nell’esperienza precedente purtroppo, un po’ per la complessità, un po’ per dei limiti e per un’organizzazione verticistica, nessuno di fatto si sentiva responsabile e il mio coinvolgimento era totale, giorno e notte, sabato e domenica compresi. Dopo un mese che ero a Bergamo, invece, mia moglie una sera d’estate mi ha fatto notare: “Ti rendi conto che non ti suona più il cellulare il sabato e la domenica?”».

 

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Quanta soddisfazione c’è nell’aver fatto di Bergamo il primo aeroporto di Milano?
«Se ci paragoniamo solo con Linate sono d’accordo. Ma sarebbe un errore. Io continuo a pensare che il vero aeroporto di Milano è Malpensa. Detto questo, è un grande motivo di orgoglio il punto a cui siamo arrivati, perché il fatto di essere stati convincenti nei confronti di tre o quattro grandi compagnie aeree, Wiz Air, Ryanair, Dhl e Ups, aver dato loro certezza di potersi sviluppare sul nostro aeroporto e averli convinti che per loro Orio sarebbe stata una carta vincente non solo per il posizionamento, ma anche per il livello dei servizi, è una soddisfazione che non ha pari. Non dimentichiamo che Ryanair, all’interno del traffico europeo, è il vettore più importante e che qui ha la sua base più grande dopo Stansted».

Undici milioni di passeggeri, terzo scalo italiano, più nove punti di fatturato, l’aeroporto più puntuale d’Italia. E, per compiere l’opera, Orio collega Bergamo con 114 destinazioni. Lei l’hai definito un caso unico al mondo.
«Le 114 destinazioni sì, sono un caso unico. Non esiste da nessun ’altra parte un aeroporto di una città di centomila abitanti che abbia una rete di collegamenti così ricca e vasta».

4500 dipendenti, più 4700 nell’indotto. Una responsabilità sociale enorme.
«Sì, però questo non ci deve far paura perché come sta scritto sulla mia porta, “è inutile continuare a pensarci sopra”. L’azione non scaturisce dal pensiero, ma dalla predisposizione ad assumersi ogni giorno le nostre responsabilità».

Recentemente lei ha detto che però non sappiamo ancora venderci...
«Soffriamo ancora un po’ di provincialismo. Talvolta abbiamo questo approccio bergamasco dove non si vuole far trasparire nulla. Ma è anche perché negli ultimi anni ci siamo talmente abituati a un susseguirsi di successi che alla fine non li raccontiamo neanche più. Non so dire se questo sia un limite, un difetto o un pregio».

Quando voleremo da Orio a New York?
«Questo dipende dalle compagnie aeree, chiaramente. Tutto è in evoluzione. Ci stiamo lavorando».

Quanto tempo ci vorrà?
«Se si concretizzano i progetti, nel giro di 8-9 mesi avremo delle risposte».

Bergamo- New York via Barcellona?
«O anche Bergamo-New York direttamente. Stiamo lavorando su entrambi i fronti».

 

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Dopo dieci anni non si sente un po’ bergamasco?
«Dire che mi sento bergamasco sarebbe una bugia. Sono molto rispettoso dei bergamaschi e ho imparato ad amarli. C’è voluto del tempo, perché ho dovuto grattare con le unghie e con i denti la crosta dalla quale sono coperti e volutamente si rivestono. Ma se posso dare un consiglio a chi si avvicina a questo territorio è che comunque si tratta di una fatica che viene ripagata, perché una volta aperta la scatola e trovate le chiavi del sistema emotivo, si va incontro a una bella sorpresa».

Faccia i suoi auguri di Buon Anno a Bergamo.
«Buon anno ai bergamaschi, che imparino ad amare di più la loro città, che la aprano agli altri e non continuino a considerarla come una bomboniera chiusa. Che non abbiano paura degli altri quando entrano, compresi i miei passeggeri, perché una perla come questa ha diritto di essere esposta nel punto più alto della casa, essere illuminata con la miglior luce. Ma, soprattutto, è un bene talmente importante che dev’esser reso disponibile al numero più alto possibile di cittadini europei. E questo è quello che stiamo facendo».

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