Una bella storia

Quelli della croce sul pizzo Coca sono tornati lassù 50 anni dopo

Quelli della croce sul pizzo Coca sono tornati lassù 50 anni dopo
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Alcuni amici, la montagna e una croce. Potrebbe sembrare il titolo di un romanzo, invece è la sintesi di una storia lunga cinquant’anni: nel 1968, infatti, alcuni giovani zanichesi portarono e assemblarono sul pizzo Coca la croce che ancor oggi si può vedere. Quattro gli ideatori del progetto: Giuseppe Merli, Renato Cattaneo, Giuseppe Pasinetti e Alberto Pesenti. A dare man forte nel viaggio si sono poi aggiunti Melchiorre Ghislotti, Vittorio Locatelli, Luisa Gambirasio, Marino Finassi, Danilo Finassi e Mario Gotti.

 

 

Il 21 agosto scorso, alcuni di quelli che furono i ragazzi di allora sono tornati in cima al pizzo Coca per celebrare il mezzo secolo della loro scalata. Sono stati proprio loro a raccontare l’esperienza vissuta: «Quando siamo saliti la prima volta al Coca, nel 1965, c’era una piccola croce di circa un metro. L’anno dopo abbiamo visto che era stata tranciata da un fulmine, mentre nel 1967 non abbiamo più trovato nulla». Da qui l’idea di costruirne una e portarla fino in cima alla montagna: «Non avendo trovato nulla, abbiamo pensato di portare noi una croce l’anno dopo. Grazie ad Antonio, fratello di Merli, abbiamo progettato e fatto costruire da un artigiano di Zanica la nuova croce. Si trattava di alcuni tubolari in ferro rinforzati, che abbiamo fatto benedire in paese da don Vittorio Consonni». Ci vollero quattro giorni per completare i lavori: «Il primo giorno abbiamo portato tutto il materiale da Zanica a Valbondione. Da lì, il carico è arrivato tramite una teleferica al rifugio Curò. Dopo il rifugio, con un carro su rotaie abbiamo trasportato il tutto fino al rifugio Coca. Dal rifugio fino in cima abbiamo trovato i compagni che si sono aggiunti. Si trattava di zanichesi che stavano facendo il giro dei rifugi e che, per caso, abbiamo incrociato lungo il sentiero». La strada dal rifugio fino ai 3.050 metri della vetta è stata dura: «Dalle 7 del mattino fino alle 2 del pomeriggio abbiamo portato in cima il cemento per il basamento, i due pali della croce, assi e acqua, affrontando neve e canaloni ripidi».

Un’impresa non da poco: stando al registro tenuto al rifugio Coca, la croce portata dagli zanichesi era alta due metri e mezzo per 78 chili di peso. Curiosamente, sul libro si legge che dopo tre giorni di nebbia il sole abbia illuminato la giornata della posa; metafora naturale perfetta per il raggiungimento dell’obiettivo. La posa della croce, comunque, è stata accurata: «Sapevamo che in cima c’era molto vento, quindi abbiamo fatto rinforzare i tralicci che compongono la croce. Siccome la struttura precedente era stata distrutta da un fulmine, abbiamo poi pensato di aggiungere un piccolo impianto di messa a terra per contrastare le scariche». Idea che è sembrata vincente, vista la longevità dell’opera. Ma qual è stata la motivazione che ha animato questi giovani? «Il pizzo Coca è la montagna più alta delle Alpi Orobie. Era quindi un motivo di orgoglio bergamasco e zanichese portare là in cima la nostra croce. Inoltre abbiamo voluto onorare la memoria del curato del nostro oratorio, don Angelo Vegini. Era lui che coordinava tutto l’oratorio e ci è sembrato un giusto omaggio».

 

 

A dire il vero, però, quella del 21 agosto non è la prima scalata dal 1968: molti di quei ragazzi, infatti, sono tornati più volte sulla vetta del Coca in questo mezzo secolo. Sia per passione che per esigenze pratiche, come la manutenzione della croce. Ogni cinque anni, poi, gli alpinisti si ritrovano per una messa celebrativa ai piedi della loro croce. Così è stato anche nel 2018. Con una novità: al gruppo originario, purtroppo orfano di alcuni membri scomparsi, si sono aggiunti alcuni membri del Gez, il gruppo escursionistico di Zanica. Membri dell’associazione "Anziani e pensionati" zanichesi, tre uomini del Gez hanno accompagnato la spedizione fino in vetta. Tutto questo non può che far sorgere una domanda: che cosa rappresenta la montagna per questi uomini? «Si tratta di una passione, di uno stile di vita – hanno affermato gli alpinisti –. Per noi significa stare in salute, muoverci, ritrovarci. Insomma, in una parola, diremmo che per noi si tratta di amore. E anche buona tavola e scorpacciate – hanno concluso scherzando –. Adesso che inizia il periodo dei funghi...».

 

Articolo pubblicato sul BergamoPost del 31 agosto 2018

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