Lorenzo D’Antiga

Il primario del Papa Giovanni che ha scoperto perché la Covid risparmia i bimbi malati

Intervista al numero uno di Pediatria e del centro di epatologia, gastroenterologia e trapianti pediatrici dell'ospedale cittadino: «I piccoli che avevano subito un trapianto o quelli oncologici non vengono colpiti da forme aggressive. E così abbiamo indagato»

Il primario del Papa Giovanni che ha scoperto perché la Covid risparmia i bimbi malati
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di Francesca Fenaroli

Il coronavirus si è accanito sugli anziani e ha risparmiato i giovani, in particolare non ha infierito sui ragazzi e i bambini immunodepressi, cioè sui più deboli. Questo fenomeno ha suscitato sorpresa e perplessità da parte dei medici. Lorenzo D’Antiga, direttore dell’unità complessa di Pediatria e del centro di epatologia, gastroenterologia e trapianti pediatrici dell’ospedale Papa Giovanni, ha approfondito questa anomalia e ha fatto delle scoperte molto importanti.

Dottore, come ha vissuto il periodo più duro della Covid?

«A fine febbraio, come tutti gli altri colleghi, anche noi siamo stati dirottati a lavorare sui pazienti affetti da coronavirus, svolgendo turni nel settore denominato “Pneumo Covid’’ e curando gli adulti. La mia famiglia si trova a Padova e per due mesi non ho potuto vederla, essendo impegnato in ospedale».

La pediatria del Papa Giovanni è considerata il primo centro in Italia nel trapianto di fegato e intestino nei bambini, come avete gestito la situazione?

«La nostra prima preoccupazione è stata quella di proteggere i nostri piccoli pazienti, sia quelli che avevano subito un trapianto, sia quelli oncologici: essendo immunodepressi, a causa dei farmaci antirigetto o della chemioterapia, il nostro scopo principale era tutelarli il più possibile dal contagio. In medicina esiste quasi un dogma: le persone con un sistema immunitario debole sono più propense a essere colpite da infezioni sia virali che batteriche. Ma il Sars-CoV-2, oltre a stravolgere l’equilibrio sanitario mondiale, è riuscito anche a smentire questa verità medica».

Cosa avete scoperto?

«Considerando che anche banali infezioni virali come l’influenza sono pericolose per i nostri pazienti, abbiamo iniziato subito a studiare il coronavirus e ci siamo accorti che nella letteratura scientifica precedente non c’era traccia di malattia grave da coronavirus tra i malati immunodepressi. Grazie all’analisi dei dati disponibili di altri due tipi di coronavirus, molto simili a questo, Sars e Mers, e da dati preliminari su Sars-CoV-2, è balzato ai nostri occhi che i pazienti immunodepressi non erano mai citati tra quelli a rischio, sia in età pediatrica che adulta».

Quindi il coronavirus è un’eccezione anche nel modus operandi?

«Grazie ai nostri studi, abbiamo scoperto che questa malattia non attacca direttamente l’ospite, in questo caso l’essere umano, ma sfrutta il suo sistema immunitario per danneggiare gli organi. Più il soggetto colpito ha le difese immunitarie deboli, più il coronavirus non trova terreno fertile: nel delitto che si consuma in questa pandemia, il coronavirus è il mandante ma l’esecutore materiale è il nostro sistema immunitario. Questo spiega anche perché i pipistrelli siano il serbatoio principale di questo agente patogeno: semplicemente hanno un sistema immunitario tollerante, quindi il virus può usarli come veicolo di trasporto per diffondersi, senza danneggiarli».

Una scoperta sorprendente. Anche i media nelle prime fasi della pandemia hanno raccontato di un bambino costretto a sospendere la chemio per ridurre i rischi di contagio... Cosa ne pensa?

«È così, e quella notizia mi ha spinto a espormi in prima persona. Considerando l’osservazione sorprendente dei nostri studi, ho contattato un collega in Cina che mi ha confermato che nemmeno nei suoi pazienti immunodepressi e trapiantati il coronavirus aveva causato una malattia grave: questo mi ha infuso coraggio e il 20 marzo, a solo un mese dall’inizio dell’epidemia italiana, abbiamo pubblicato un articolo su una prestigiosa rivista internazionale in cui si suggeriva che i pazienti immunodepressi non erano a rischio maggiore di Covid rispetto alla popolazione in generale».

Articolo contestato da molti suoi colleghi.

«Confermo. Moltissimi medici da tutte le parti del mondo ritenevano fosse impossibile e quasi surreale che un immunodepresso non fosse più soggetto ad ammalarsi di un paziente sano e con anticorpi forti. Ho difeso la mia ipotesi davanti a un centinaio di colleghi collegati dagli Stati Uniti e ne ho parlato anche a Rai 2: volevo che il messaggio si diffondesse il più possibile sia nella classe medica che tra la gente comune, perché il rischio per la salute in chi interrompeva le terapie immunosoppressive, compresa la chemioterapia, era molto più alto».

Quindi anche lei, come il dottor Gianatti per le autopsie, si è trovato contro i medici di mezzo mondo? Come è finita?

«Finalmente a maggio, dopo molte discussioni e dopo aver pubblicato diversi articoli che confermavano questa ipotesi, anche altri gruppi di ricercatori sono giunti alle stesse conclusioni. Sempre a maggio, persino il Nice, l’organo ufficiale inglese che si occupa delle linee guida, ha prodotto un documento in cui spiegava che i bambini immunodepressi non correvano rischi maggiori. Attualmente il nostro articolo è stato letto da migliaia di persone e in pochi mesi è stato citato da più di duecento articoli scientifici, incluse alcune linee guida internazionali. Il messaggio però non è ancora passato, e rimane il rischio che alcune persone interrompano delle terapie necessarie a causa della paura del virus».

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