La storia narrata nel film "Argo"

Taylor, l'ambasciatore canadese che salvò gli americani a Teheran

Taylor, l'ambasciatore canadese che salvò gli americani a Teheran
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Ken Taylor è morto il 15 ottobre a ottantuno anni, nella sua residenza newyorkese. Anche se oggi sono forse pochi quelli che si ricordano chi sia, c’è stato un tempo in cui veniva considerato un eroe. La sua vita ha incrociato una rivoluzione, una profonda crisi diplomatica e politica, rapimenti e la finta messinscena di un film di Hollywood. Non è un caso che la notizia della morte di Taylor sia stata riportata anche dall’Hollywood Reporter. Come si dice in questi casi, ci sarebbe ampia materia per scriverci un libro. Eppure non c’è niente che non sia vero, nella vicenda che ha coinvolto Taylor nel 1979. A quel tempo si trovava già da due anni in Persia (odierno Iran), a Teheran, dove ricopriva la carica di ambasciatore del suo Paese, il Canada.

La Rivoluzione degli ayatollah. Per un occidentale trovarsi a Teheran alla fine degli anni Settanta era alquanto rischioso. La politica filo-americana dello scià Reza Pahlavi gli aveva inimicato parte della popolazione, alcuni intellettuali e i rappresentanti della religione islamica, che lo accusavano di avere venduto il Paese all’Occidente. Nel 1979 le tensioni giunsero al culmine e iniziò la Rivoluzione degli ayatollah, dal nome delle massime autorità religiose dell’Islam. A guidare gli oppositori del regime dello scià c’era Khomeini, che dopo la fuga di Reza Pahlavi in Egitto avrebbe assunto la guida del governo e proclamato la nascita della Repubblica Islamica dell’Iran (è ancora l’unica al mondo ad avere un orientamento sciita).

 

 

La crisi degli ostaggi. Nel caos delle proteste e delle violente manifestazioni che seguirono il colpo di Stato, l’ambasciata statunitense venne presa d’assalto da un gruppo di insorti. Era il 4 novembre 1979. Furono presi in ostaggio ben cinquantadue dipendenti della sede diplomatica, con l’accusa di essere nemici dell’Iran e di appoggiare il vecchio governo dello scià. Sarebbero occorsi 444 giorni di negoziati difficili e tesi, prima che venissero rilasciati, il 20 gennaio 1981, quasi due anni dopo il giorno del rapimento. La “crisi degli ostaggi”, come venne chiamata, ebbe delle ripercussioni molto negative sulla popolarità del presidente statunitense allora in carica, Jimmy Carter, che vide sfumare la possibilità di essere rieletto alle presidenziali dell’81. Carter lasciò la guardia al suo successore, Ronald Reagan, che peraltro prestò giuramento proprio nel giorno in cui gli ostaggi furono rilasciati.

Sei riuscirono a fuggire. Ma tra i dipendenti dell’ambasciata americana c’erano due gruppi che riuscirono a scappare dall’edificio assediato e a disperdersi per le strade della città. Uno di questi due drappelli fu catturato e riportato all’ambasciata. L’altro, invece, riuscì a passare inosservato. Era formato da sei diplomatici: al gruppo iniziale di cinque persone si era aggiunto infatti Lee Schatz, che aveva trovato momentaneo rifugio presso l’ambasciata della Svezia. Per sfuggire alle ronde dei sostenitori di Khomeini, decisero di dirigersi verso la sede diplomatica del Regno Unito, ma si accorsero che la strada era occupata dai rivoltosi. Cambiarono immediatamente il loro percorso e trovarono ospitalità nella casa di Robert Anders, un politico canadese. Dopo sei giorni, durante i quali i diplomatici cambiarono cinque volte il loro nascondiglio, Anders chiese aiuto al collega John Sheardown, anch’egli politico canadese e diplomatico esperto in immigrazione. Quando Anders andò a trovare Sheardown trovò anche l’ambasciatore Ken Taylor.

 

 

L’iniziativa di Taylor. I tre uomini discussero sul da farsi e alla fine Taylor accettò di prendere con sé due diplomatici statunitensi. Nel frattempo, contattò il primo ministro canadese, Joe Clark, e il segretario di Stato per gli affari esteri, Flora MacDonald. Si pensava di organizzare un volo aereo internazionale che portasse via gli americani dall’Iran. Avrebbero viaggiato con passaporti canadesi, dotati di visti iraniani procurati dal servizio d’intelligence statunitense, la CIA. Serviva, però, un motivo valido che giustificasse il viaggio dei sei transfughi in incognito. A trovarlo fu Tony Mendez, un esperto a cui si rivolse la CIA. Accompagnato dal suo assistente “Julio”, Mendez atterrò nell’aeroporto di Teheran, studiò rapidamente la situazione ed elaborò il seguente piano: i sei diplomatici avrebbero dovuto trasformarsi nella troupe di un film alla ricerca della giusta ambientazione per la loro pellicola. Il film in questione si sarebbe chiamato Argo e la trama si sarebbe ispirata a un libro di fantascienza, Il Signore della Luce, pubblicato nel ’67 da Roger Zelazny. La storia sarebbe stata ricca di riferimenti alla mitologia indiana.

Una messinscena coi fiocchi. Mendez si inventò così un film dal nulla, ma per rendere credibile la sua messinscena aveva bisogno di apportare qualche elemento di realtà. A questo punto della storia, entrò in campo John Chambers, un responsabile del trucco di Hollywood. Sarebbe a dire, un mago dell’artificio illusionistico. Con il suo aiuto si costruì uno studio cinematografico a Los Angeles, lo Studio Six, e si riadattò l’ufficio di Sunset Boulevard usato da Michael Douglas per Sindrome cinese (1979) per riadattarlo al nuovo “film”. Dopo avere messo a punto l’apparato logistico, occorreva fare un po’ di pubblicità, come si fa per lanciare qualsiasi prodotto dell’industria cinematografica. Ecco allora comparire réclame sui media e sui magazine, come l’ Hollywood Reporter; ecco la locandina di Argo su Variety ed ecco la sua brava festa di presentazione in un nightclub di Los Angeles. C’era veramente tutto, persino il produttore: Chambers aveva chiamato un suo amico truccatore, Robert Sidell, lo stesso che poi avrebbe lavorato per E.T. di Spielberg, nel 1982. Ogni cosa era stata sistemata a puntino. A parte il film, ovviamente.

Una fuga andata a buon fine. Finalmente il 27 gennaio 1980 i sei diplomatici, sotto le mentite spoglie di lavoratori cinematografici, passarono i controlli dell’aeroporto di Teheran e si imbarcarono sul volo 363 della Swissair. L’aereo si chiamava “Argovia”, per uno dei soliti scherzi del caso. Dopo un piccolo ritardo dovuto a un problema ai motori del velivolo, il viaggio procedette senza problemi e il piccolo gruppo atterrò a Zurigo. Qui fu preso in consegna dalla CIA e portato in un luogo sicuro. Dopo tre giorni prese nuovamente il volo e giunse negli Stati Uniti. Mendez e Julio, invece, partirono alla volta di Francoforte. Il 28 gennaio l’ambasciata canadese chiuse i battenti.

Il silenzio degli USA. Tutto si concluse per il meglio, grazie all’impegno di Taylor, all’inventiva di Mendez e all’aiuto di Chambers, che venne poi insignito della medaglia al merito dalla CIA. Gli Stati Uniti decisero di tacere il loro ruolo nella fuga dei sei diplomatici, perché temevano di aggravare la situazione degli ostaggi ancora in mano ai seguaci di Kohmeini. Gli onori dell’operazione andarono perciò al Canada e a Taylor, che fu ricevuto alla Casa Bianca da Reagan e nominato console generale del Canada a New York. La versione dei fatti fu poi riaggiustata e riportata alla verità storica quando i documenti relativi alla missione del ’79-’81 furono desecretati dai servizi d’intelligence americani.

Un film sul film che non è mai esistito. La storia di Argo ha avuto un risvolto più recente. Nel 2012 l’attore e regista Ben Affleck ha deciso infatti di raccontare le vicende del 1979 in un film che si intitola esattamente come la pellicola che non è mai esistita. Una degna conclusione per la finzione (a fin di bene) elaborata da Mendez.

 

 

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