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Laura, campionessa bergamasca «Tuffarsi è un po' come danzare»

Laura, campionessa bergamasca «Tuffarsi è un po' come danzare»
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«All’inizio non è stato facile. Ti mancano la famiglia, gli amici, la tua routine. Il primo giorno di scuola è stato un po’ strano. Io, abituata a una piccola classe, catapultata in mezzo a trentacinque persone. “Dove sono capitata”, pensai. Poi ti ci abitui, le situazioni prendono il loro corso. Qualche volta mi manca Bergamo, è normale. Ma questa è la strada che mi sono scelta, è questo che voglio fare». Ci vuole coraggio per tuffarsi. Nelle novità, nella vita, nell’acqua. Ne ha avuto tanto Laura Granelli, 18 anni, tuffatrice per vocazione. Un giorno Oscar Berton e andò da lei, che aveva quindici anni, e le disse: «Vieni a Roma? Puoi fare grandi cose». Laura ne ha parlato con mamma e papà e alla fine ha detto ok, ci vengo. Si allena all’Acqua Acetosa, il centro federale con trampolini e piscine all’avanguardia. Vive con Noemi Batki, l’azzurra che ha fatto tre Olimpiadi. Tesserata per la Asd Bergamo Nuoto, dopo anni di juniores Laura è passata coi senior. Ultimo (e necessario) scalino per un tuffo nel futuro. «L’immagine del cambiamento ce l’ho chiara. All’ultimo Europeo in Norvegia con le giovanili ero la più grande, ero la capitana della squadra. Mi guardavo in giro. A un certo punto mi sono detta: “Ehi Lalla, questa è l’ultima gara, adesso passi coi grandi”. Ho davanti tuffatrici più forti, con più esperienza. È molto difficile. L’obiettivo del 2018 è fare bene nelle gare italiane, ma spero di qualificarmi anche per qualche gara internazionale».

Proviamo a fare un tuffo ancora più difficile e pensiamo a lei tra due anni, in equilibrio sul trampolino di Tokyo 2020, perché in fondo l’Olimpiade non è tanto lontana. Anche Laura fa parte del progetto azzurro che coinvolge atleti di tutto il Paese (e di tutte le discipline) in preparazione ai Giochi. « All’Olimpiade non ci penso mai prima di andare a dormire. Semmai lo faccio ogni volta che metto piede in piscina. E anche adesso, mentre ne parlo, mi viene la pelle d’oca. È il sogno, l’ambizione, il traguardo. L’Olimpiade è tutto. Mi vengono in mente quelle di Londra, ho iniziato a seguirle con un certo fervore. Il pensiero di poterle raggiungere e prenderne parte è uno stimolo, e questo mi fa migliorare».

 

 

Com’è allenarsi coi grandi?
«All’inizio un trauma. Nelle giovanili è diverso, con la nazionale assoluta è complicato. Sono la più piccola. Ma sto benissimo, mi sono ambientata».

Andare a Roma è stata la scelta giusta, insomma.
«Mi sono messa in gioco. Nel 2015, Bertone, l’allenato re di Tania Cagnotto, me lo ha chiesto. I miei genitori mi hanno lasciata libera di scegliere. Ho capito di avere un’opportunità e ho cercato di coglierla. E poi i romani sono molto aperti».

Torna a Bergamo ogni tanto?
«Quando posso. A Bergamo sono arrivati due nuovi allenatori, due olimpionici, Davide Lorenzini e Roman Volodkov, che ha rappresentato l’Ucraina a tre Olimpiadi. Lavorano per l’Asd, quest’estate sono andata a dare una mano».

Il livello si sta alzando?
«È iniziato un percorso e sta andando bene. Ho visto un ambiente bello, nuovo, pieno di entusiasmo. Speriamo che in futuro possano esserci le strutture adeguate, come a Roma. Gli atleti non mancano. Un altro che promette bene è Stefano Belotti. Ha quattordici anni».

Parliamo di Tania Cagnotto.
«Un idolo. Ogni volta la guardo con gli occhi che brillano. Sembro una bambina. Non siamo amiche, ma se la incontro ci salutiamo. La prima volta la vidi a Bolzano. Ero agitata, tremavo fortissimo. Era una gara italiana, salimmo anche sul podio insieme. Lei è una sempre concentrata, che sta sul pezzo. Parla, sì. Ma quando c’è da tuffare è seria».

Il bronzo a Rio 2016 se lo ricorda? Come lo ha vissuto da spettatrice?
«Me lo ricordo, eccome (ride, ndr). Ero in Scozia per una vacanza-studio. In casa internet non prendeva, stava per iniziare la finale e io impazzivo. Poi tornò a funzionare tutto. Alla fine piansi di gioia per lei. Davvero bellissimo».

Com’è stare a contatto con i propri idoli?
«Incredibile. Ho avuto la fortuna di conoscere Klaus Dibiasi. Ho fatto qualche allenamento con lui. Dibiasi ha scritto la storia dei tuffi. E così Giorgio Cagnotto, il papà di Tania. Stare a contatto con queste persone non è da tutti, mi sento molto fortunata».

 

 

E la Batki?
«Con Noemi condividiamo la stanza. Da ottobre vive qui al l’Acqua Acetosa. Passiamo molto tempo insieme. È un idolo. Spesso le chiedo dei consigli, le domando come affrontare le cose quando vanno male, come rialzarsi dopo una sconfitta. Mi aiuta. È molto importante per me».

Lei come ha cominciato?
«Da bambina amavo tuffarmi dagli scogli di Praia a Mare. Lì abbiamo una casa con la piscina, ci andavamo tutte le estati. Un giorno mamma mi portò all’Italcementi, che sta a cinque minuti da casa. C’era un corso di tuffi per bambini. Avevo cinque anni. Per tre anni ho fatto pure danza classica, ma alla fine ho scelto i tuffi perché mi diverto».

Tuffi e danza: l’eleganza è la stessa...
«Sì, i tuffi sono anche una questione di eleganza. È come una danza, però nell’aria. Anzi, l’eleganza è un fattore molto importante, che viene anche giudicato quando fai un tuffo».

Quanto tempo si allena al giorno?
«Mattina scuola. Dalle 15 alle 18 piscina. Il sabato solo mezza giornata. Giorni no ce ne sono, ogni atleta li ha. È normale. Ma quando i sacrifici vengono ripagati ne vale sempre la pena. In media si fanno una cinquantina di tuffi al giorno. Ma il numero varia, dipende dalle sessioni di allenamento. Spesso i movimenti si provano in palestra, in una vasca piena di gommapiuma, poi li replichiamo in piscina».

Ha un tuffo preferito?
«Il triplo e mezzo avanti dai tre metri. Mi piacciono molto i tuffi avanti, mi vengono bene e mi vengono facili».

 

 

In gara a cosa pensa tra un tuffo e l’altro?
«Appena finisci un tuffo ti rilassi, stacchi il cervello, ascolti musica o chiudi gli occhi e svuoti la mente. Quando mancano cinque ragazze prima del tuo tuffo riconnetti. Questo è uno sport che richiede molta concentrazione. Bisogna avere autocontrollo, disciplina, volontà. Noi del femminile abbiamo cinque salti. Nelle giovanili se ne fanno nove e nelle gare internazionali è dura restare concentrati. A Baku, per esempio, abbiamo fatto quattro ore di eliminatorie, in pratica venti minuti di attesa tra un tuffo e l’altro. Un’enormità».

Ha dei trucchi per restare connessa?
«Lavoro con uno psicologo dello sport. Uno dei trucchetti è fissare un punto, concentrarsi così tanto da far esistere soltanto quel puntino. Tutto il resto deve svanire. Quando raggiungo quello stato, ecco, allora comincio la camminata».

È scaramantica?
«Un po’. Immergo le medaglie che vinco nell’acqua, le bagno, è un gesto che vidi fare ad alcuni tuffatori più grandi di me. Direi che è una sorta di rito».

Il vuoto e l’altezza le fanno paura?
«La paura la devi superare. Non devi averne per una botta, non devi temere di non entrare in un tuffo solo perché non ti ritieni in grado. Da piccola un po’ di paura l’avevo. Quando avevo tredici anni per un mese ho provato la piattaforma dieci metri...».

E come andò?
«Arrivi in cima e vedi le persone grandi come formiche. È quasi un altro sport».

Il coraggio va bene. Ma il segreto è tuffarsi dall’altezza giusta.

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