Ha scritto pure un libro

Naufrago per 13 mesi nell'Oceano Ora accusato di cannibalismo

Naufrago per 13 mesi nell'Oceano Ora accusato di cannibalismo
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Il 21 dicembre di tre anni fa José Salvador Alvarenga era partito dalle coste messicane per una battuta di pesca che non si sarebbe protratta oltre le ventiquattro ore. Invece, è tornato a mettere piede sulla terraferma solo nel gennaio 2014, ben tredici mesi dopo. Alvarenga, che nel 2012 aveva 35 anni, ha origini ecuadoregne, ma da 15 anni viveva in Messico. Aveva una lunga esperienza in fatto di pesca al tonno e aveva accettato di insegnare qualche trucco del mestiere al 15enne Ezekiel Cordoba. Le condizioni atmosferiche erano perfette: mare calmo e cielo limpido. Poche ore dopo essere salpati, tuttavia, l’imbarcazione di Alvarenga si era fermata per un guasto al motore. Il pescatore e il suo apprendista speravano di essere avvistati da terra, visto che si trovavano a poca distanza dalla costa. Purtroppo, però, forti venti provenienti da nord li hanno allontanati e una tempesta, scatenatasi poco dopo, li ha spinti alla deriva.

 

 

Ricordi confusi. Le condizioni in cui si trovavano Alvarenga e Ezekiel erano disperate. Avevano solo un telo per proteggersi dal sole e dalle intemperie e non avevano scorte alimentari. Alvarenga riusciva a uccidere gli uccelli marini che si posavano sullo scafo della barca, usando il suo coltello, ma Ezekiel si rifiutava di mangiare la carne cruda. Così ha raccontato l’uomo quando, nel 2014, è approdato esausto sull’atollo di Ebon, nelle isole Marshall. Seminudo, barba lunga e caviglie gonfie, sembrava confuso, quando gli è stato chiesto che fine avesse fatto il suo compagno. Alvarenga ha dichiarato che Ezekiel era morto di stenti e che aveva lasciato per sei giorni il cadavere del ragazzo sulla barca, per compagnia. Ma non ha chiarito cosa abbia poi fatto del corpo. L’uomo ha raccontato che, dopo il decesso del giovane, avrebbe voluto suicidarsi, ma aveva paura del dolore: «Ci ho pensato quasi quattro giorni. Poi mi sono messo a pregare, e mi sono affidato a Dio».

Un’esperienza incredibile. Il sopravvissuto ha riferito di essere scampato alla morte cibandosi di pesci, tartarughe e uccelli, una versione resa credibile dal fatto che il fondo della sua barca è stato trovato pieno di lische e di fragili scheletri di uccelli. Alvarenga avrebbe poi catturato anche dei tonni, immergendo il braccio nell’acqua, come esca, e poi acchiappando gli esemplari più piccoli per la coda. Non avendo acqua potabile a disposizione, beveva il sangue degli animali e, quando mancava, la sua stessa orina. I medici che hanno visitato Alvarenga si sono stupidi delle condizioni fisiche dell’uomo, incredibilmente buone. Il suo stato di salute era perfetto, fatta eccezione per una leggera disidratazione. Del resto, è già accaduto che dei naufraghi siano riusciti a sopravvivere nutrendosi di animali marini. Nel 2006, ad esempio, era già successo ad altri tre messicani.

 

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Accusato di cannibalismo. Tuttavia, ciò che il pescatore ha detto sulla morte di Ezekiel convince poco, e non convince affatto i genitori del ragazzo, i quali hanno citato in giudizio Alvarenga, accusandolo di essersi cibato dello stesso Ezekiel per sopravvivere. Insomma, il pescatore è accusato di atti di cannibalismo, né più né meno. La famiglia di Cordoba chiede perciò a Alvarenga un risarcimento pari a milioni di dollari. L’avvocato del pescatore, Ricardo Cucalon, ha dichiarato a un quotidiano di El Salvador che il suo assistito non ha mangiato l’amico, ma ha buttato il corpo in acqua. La difficoltà a ricordare gli eventi da parte di Alvarenga era probabilmente dovuta allo shock e alla stanchezza, per l’avvocato. Cucalon ha poi fatto notare che l’azione legale è stata indetta solo pochi giorni dopo l’uscita di un libro sull’avventura del naufrago: «Credo che questa richiesta [da parte dei Cordoba] sia parte della pressione esercitata da questa famiglia per dividersi i diritti. Molti credono che il libro stia rendendo ricco il mio cliente, ma quello che la cifra che guadagnerà è molto inferiore a quello che crede la gente». L’ipotesi della difesa, dunque, è che i genitori del giovane morto vogliano avere parte al “bottino” che spetterebbe ad Alvarenga.

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