L'origine della persecuzione

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«Beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».

Sono più le volte in cui si è distratti - quando si legge - che quelle in cui si tiene il cervello ben collegato con quel che il testo vuol dirci. In questo caso, per esempio, ci si lascia portar via dalla scoperta che la seconda parte della beatitudine (perché di essi è il regno dei cieli) è la stessa dei poveri di spirito. E così ci si dimentica della prima, ossia del fatto che si sta parlando di coloro che sono perseguitati a causa della giustizia. I quali - vien da supporre - devono essere intesi come diversi da quelli che della stessa giustizia hanno fame e sete, e che saranno saziati.

O forse no. Perché - tornando a noi - essere saziati non coincide in qualche modo col trovarsi già in paradiso? che altro è, il regno dei cieli, se non il compimento dei nostri desideri e, nello stesso tempo, l’attivazione di un desiderio sempre più inesauribile - perché desiderare è di per sé bellissimo - ma senza più ansia, senza più interrogativi sulla propria adeguatezza? Come se, capitati su una bottiglia di vino che inseguivamo da anni, ci ritrovassimo d’un tratto, per il fatto stesso di averla bevuta fino in fondo, a rinascere in una cantina di Sassicaia immunizzati contro l’ubriachezza. (Come se non avessi appena detto che è facilissimo, leggendo, andar via di testa).

Torniamo alla giustizia: averne fame e sete - ossia attendere il manifestarsi del Giusto, come dicemmo allora - non comporta quasi necessariamente il fatto di finire perseguitati? Non di sentirsi perseguitati, che è l’anticamera della paranoia, proprio di esserlo.

Pensiamo un attimo: al di là delle forme storiche che ha assunto nel tempo (in ogni tempo, e spesso in diverse forme nello stesso tempo), al di là di Nerone, dei Turchi, dei Gulag e di tutti gli altri, qual è l’origine (e la sostanza) della persecuzione? L’altrui desiderio che uno - il perseguitato, appunto - non sia quel che è, non pensi quel che pensa, non abiti dove abita, non creda in ciò in cui crede. La persecuzione non nasce da una colpa che si sia commessa, da un’ingiuria che si sia pronunciata, da una pratica sconveniente che si sia avviata (per questo le accuse nei confronti dei perseguitati sono sempre e tipicamente pretestuose). La persecuzione è il velenoso secreto di una ghiandola impazzita, che prende forma nel desiderio che non esista un “tipo umano” come quello di cui si organizza la cancellazione.

La presenza di una persecuzione, pertanto, coincide con l’affermazione che una certa forma umana - un tipo umano, come si è detto sopra - esiste già, si è già organizzato, ha già provato a comunicare la propria esperienza resistendo agli assalti di chi vorrebbe negarla. Non si può scatenare una caccia a chi non c’è. Fino a che non si tenta di deviare il corso del fiume per avere l’acqua da innaffiare i campi, nessuno ci muove guerra.

Rispetto alla precedente, dunque, questa beatitudine fa un passo avanti, in quanto mostra un soggetto che si fa riconoscere, che si propone. In altra parte del testo personaggi come questi vengono paragonati ai profeti, ossia a persone la cui sola presenza obbligava i malvagi a rivelarsi per quello che erano: ipocriti, mentitori, assetati di sangue. Anche se - e questo è sempre bene precisarlo - il profeta o chi per lui non si costituisce in relazione al suo persecutore, non ha bisogno del nemico per esistere: è autonomo nel proprio presentarsi sulla scena. Talvolta incarna una posizione così singolare da rischiare di passar per matto. I cristiani armeni non erano sorti in opposizione all’impero ottomano: erano lì da secoli, come gli Yazidi in Iraq o gli ebrei in Germania, che non sono certo nati come forma di opposizione al nazismo.

La caratteristica del perseguitato - voglio dire - è l’esserci e basta (il trovarsi-lì), non l’esserci contro. Per questo alla persecuzione si può solo tentar di sfuggire, cercare di sottrarsi. Nient’altro. Le apostasie, i rifiuti di sé, i giuramenti di non essere quel che si è non fanno storia.

Di queste forme di umanità irriducibili ad altro, di queste etnie inclassificabili se non come “sui generis”, quasi numeri primi nella catena infinita che parte dal grado zero dell’umano e non si sa dove finisca, fanno parte coloro che non possono evitarsi di desiderare la presenza di Cristo tra gli uomini, o di riconoscerla là dove si presenta ai loro occhi. Non possono fare a meno di invocarlo, di organizzargli delle feste, ringraziarlo, chiedergli di intervenire in situazioni particolari e fare pressing perché li accolga al termine di questa esistenza terrena.

Se vi riconoscete in questa descrizione, disse Gesù di Nazareth quella mattina, beati voi, perché vuol dire che il Signore mio Padre vi ha dato come compito quello di render presente tra gli uomini il desiderio di vederLo che vi abita. Di caratterizzarvi per questo. Vi ha fatto - per dir così- portatori sani di una malattia che nessuno può guarire se non Lui. Cioè Io.

Se qualcuno vorrà perseguitarvi per questa ragione, beati ancora di più, perché significa che non avete tenuto per voi quel privilegio, ma l’avete messo in gioco, ne avete fatto avvertire l’attrattiva o il profumo nel mondo senz’altro aiuto o strategia che il fatto di amare quello che vi è stato dato di essere. Vuol dire che avete già bevuto il primo sorso del paradiso, che avete già sentito l’irresistibile attrattiva del mare e non avete potuto fare a meno di bagnarvi i piedi, magari senza sapere che quello che avete toccato è già tutto l’oceano che circonda il mondo. O intuendolo, forse, qualche volta, appena prima di provarne timore.

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