Di Rogno

La vita è una partita a scacchi e Marina è una vera campionessa

La vita è una partita a scacchi e Marina è una vera campionessa
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Tutte la vite sono una lunga, bellissima partita da giocare. «Era un sabato o una domenica. Pioveva. Papà non poteva andare nell’orto. Allora tirò fuori gli scacchi dalla credenza e fece vedere a mio fratello Sabino come si fa». Ogni pezzo è collegato, ogni mossa ha un perché. «Mio fratello Sabino voleva sempre giocare contro qualcuno, ma non c’era mai nessuno che gli dava retta. Così un giorno mi ha insegnato le regole soltanto per poter avere un avversario. Avevo cinque anni». Oggi Marina Brunello di anni ne ha quasi 23, studia Psicobiologia e Psicologia cognitiva a Padova, «ma sono di Rogno, Valcamonica, e mai come adesso mi manca il fresco delle montagne, siamo vicini al lago d’Iseo: qui invece c’è un’afa che si boccheggia…».

A forza di giocare a scacchi Marina, attuale numero 2 italiana, è diventata la numero 80 del mondo. Destino? Genialità? Lei tira un lungo «ehm» con la bocca, guarda in qua, poi in là. E alla fine risponde: «Genio è una parola grossa. Sono brava, ho talento». Fa parte della nazionale italiana di scacchi ed è una delle perle della squadra, la Caissa Italia Pentole Agnelli. La Asd Caissa ha sede a Bologna e un’altra operativa a Bergamo. Hanno vinto l’edizione 2017 del Campionato italiano femminile a squadre, a Gallipoli, con cinque vittorie e un unico pareggio. Oltre a Marina, la squadra è composta da Silvia Guerini, cresciuta nell’Excelsior di Borgo Santa Caterina. Bergamasco è anche il team manager Gianvittorio Perico. «Per essere un grande giocatore ci vuole pazienza, tanta pazienza - dice ancora Marina -, ma soprattutto è una cosa che deve piacere, se uno non si diverte non può diventare un grande giocatore. Una partita dura quattro ore, e stare concentrati così a lungo non è facile. Io studio gli scacchi ogni giorno, ma faccio anche l’università, sono al terzo anno. Insomma, sono impegnatissima».

 

Da sinistra, Roberta Messina, Desiree Di Benedetto, Marina Brunello, Elisabeth Paehtz

 

Marina sorride. È calma, pacata, gentile. Muove le parole con abilità, cerca il tono giusto. «Esco con gli amici, ascolto i Queen, e poi gioco a calcetto. Sì sì, a calcetto. Sono l’unica femmina e mi diverto. Mi piacciono tutti gli sport, mi piace l’idea di libertà, di movimento. Non tifo nessuna squadra, mi piace giocare di mio, può essere il calcio, il basket, la pallavolo. Qualsiasi cosa. Purché sia competitiva. Nel rispetto delle regole e dell’avversario, certo. Però se mi ci metto l’obiettivo è vincere».

Papà Angelo fa il camionista («E speriamo che vada presto in pensione»), mamma Ornella invece insegna Storia e Filosofia in un liceo di Lovere. «Lei ha imparato a giocare guardando me, mio fratello e mia sorella Roberta, che adesso vive in Inghilterra e fa l’infermiera. Quando siamo tutti a casa giochiamo, sì. Ma una cosa veloce. Le nostre partite non durano quattro ore». Quella degli scacchi è un’arte, ma anche una forma di insegnamento. «Ti forgiano, ti insegnano a gestire il tempo, a prendere decisioni. Uno può sfogare la sua aggressività. C’è un controllo emotivo, e poi bisogna imparare a perdere, perché tutti perdono». Ma si vince anche, per fortuna.

 

 

Nel 2011 Marina riesce a battere Eduard Rozentalis, il primo Grande Maestro della sua carriera. È una sorta di età adulta: quando un giocatore di scacchi batte per la prima volta un avversario così forte entra in una nuova fase evolutiva. «Ero a Cento, era febbraio ed era il primo turno. Avevo 17 anni. Una mossa dopo l’altra mi sono ritrovata a stare meglio, ero emozionata, ma alla fine sono riuscita a vincere». Ha già disputato sei Olimpiadi, viaggiato in lungo e in largo per il mondo: Marina ha le idee chiare. «Il sogno è che gli scacchi diventino una professione. Mio fratello è già professionista. Però il femminile in Italia sta cambiando. Adesso quando giochiamo a squadre l’Europeo o l’Olimpiadi arriviamo al trentesimo posto, ma sarebbe bello arrivare primi. Il movimento italiano è cresciuto molto, rispetto a dieci anni fa siamo diventate più forti».

Tutte le vite sono una lunga, bellissima partita. Da giocare fino in fondo, senza smettere mai. «Alla fine i pezzi non sono così tanti, sedici a testa, ma io non ho mai giocato una partita uguale a un’altra in dieci anni che gioco per la nazionale. E questo colpisce. E poi c’è un lato creativo, è la testa di una persona contro la testa di un’altra. Non esiste quasi la fortuna. Se perdi, non puoi dire che la colpa è del compagno di squadra o cose del genere. Sei solo tu a giocare. E se hai vinto il merito è tutto tuo». Sembra la vita. «Ci sono cose molto simili. Ma una partita dura solo quattro ore e ne puoi sempre fare un’altra. La vita, be’, quella è una sola».

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