Cosa metti "mi piace", o cretino?

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Mia nonna ripeteva spesso che le era toccato vivere in un’epoca di totale follia. Credo che se avesse conosciuto questa sarebbe probabilmente morta stecchita sul colpo: di crepacuore o dall’amaro ridere. In fondo più volte mi trovo a riflettere quanto sia auspicabile abbandonare questo pianeta in tempo prima che quello che ci gira intorno arrivi a stritolarci. E questo è invece un tempo che di accelerazioni ne propone in quantità eccessiva: un vorticare di eventi capaci di  bruciare letteralmente le esperienze umane che invece avrebbero bisogno di una metabolizzazione precisa, quella dettata da quei ritmi circadiani impressi in un DNA le cui  memorie diventano sempre più appannate. La massificazione dell’uso della rete internet è stato un fatto epocale che ha pochi precedenti: la scoperta del fuoco, l’invenzione della ruota circolare, l’aereo e la coca cola.

Eppure questa le supera tutte, per il semplice fatto che alimenta la sensazione di onnipotenza, di ubiquità, del completo azzeramento spazio- tempo, di un’apparente facilità nell’acquisire informazioni. Ma specialmente dà l’illusione di nutrire l’ego di ogni poveretto su questa terra assetato di protagonismo che certi maliziosi coppieri soddisfano versandone quanto ne vuole, parafrasando l’ottimo Platone.

E il liquore delizioso servito senza misura è quello dei social network, di quelle piazze globali dove si glorifica il rito dell’amicizia ma dove invece si celebra quello di una immensa solitudine, di vuoti esistenziali incolmabili, spesso di vite allo sbando senza più la maschera pietosa di uno straccio di dignità e perfino dell’amor proprio. Luoghi virtuali in cui  sembra lecito dire tutto, sbraitare esibendo storie personali, emozioni, fatti che dovrebbero restare privati.

Ma che razza di mondo è, da che genere di persone è ormai abitato se centinaia di ‘I like’ vengono apposti sulla pagina di uno spostato che dopo avere assassinato la propria moglie se ne vanta con un post su facebook condito da una frase oscena?

Oserei dire che il secondo atto supera per violenza, volgarità, follia e orrore il primo che è pure il più estremo in assoluto. Perché si può uccidere in un attimo di pazzia,  vittime di un momento di un raptus, annebbiati dalla rabbia e dalla collera. Poi se ne pagheranno comunque le conseguenze. Ma che dopo il delitto si arrivi a compiere azioni quali accendere il pc, aspettare che i programmi carichino, attendere l’avvenuta connessione web e quindi cliccare sulla pagina del social network è l’assurdo prodotto di una lucidità aberrante difficile da capire.

Eppure quel popolo di facebook, che dire di bocca buona è solo un prudente eufemismo, plaude e mette ‘mi piace’ a raffica. Si parla di morte, signori. Di morte. Quella vera, quella da cui non si ritorna, definitiva, rapace, crudele, senza scampo e assoluta. La morte che è fine di tutto, che chiude gli occhi per sempre su questa mondo, che toglie ogni alito di vita e consegna il corpo alla polvere da cui è provenuto. Non si tratta, amici di facebook, di un gioco virtuale da playstation perché mi piacerebbe informarvi che la realtà di ogni giorno non è affatto quella definita 2.0: no, quando qualcuno ammazza un altro solo un pazzo da legare quanto chi ha commesso il fatto può scrivere ‘mi piace’. Ma poi cosa ti piace, o sesquipedale cretino? Il fatto che una persona sia stata uccisa, l’omicidio in sé,  l’omicida, la vittima?...

Cosa possa piacere di un episodio simile, di un fatto criminale, non riuscirò mai a concepirlo neppure sotto la minaccia di un’arma, tanto per restare in tema. Se avessi constatato personalmente quanto accaduto avrei subito informato le forze dell’ordine: ma io vengo da un altro mondo.

Quello in cui si aveva normale rispetto per l’altro, e non in forza di un protocollo sociale. In cui il privato era e restava privato senza bisogno di una ‘privacy’ che allude a qualcosa di inconsistente e falso. In cui le parole vita, morte, dignità personale e perfino onore avevano un significato pieno, letterale: non termini vuoti ma concetti di alto valore ampiamente condivisi e da tutti riconosciuti all’istante.

Era un mondo semplicemente normale.

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