Pupi Avati, un maestro italiano
Il clarinetto era e sarebbe rimasto la passione segreta della su vita. Ma l'arte, si sa, è spesso più matrigna che madre e paga poco, specie quando a sbarrare la strada del talentuoso musicista è uno più bravo di lui che porta il nome di Lucio Dalla. Riposto nell'astuccio lo strumento, per mantenersi vende i prodotti di una nota marca di surgelati: per fortuna è un amaro ciclo di anni horribiles destinato a restare sigillato nel baule dei brutti ricordi. Un giorno va al cinema e il film Otto e mezzo di Fellini gli cambia radicalmente la vita, con la folgorazione netta di essere un predestinato del mondo della celluloide.
Giuseppe Avati diventa Pupi e ben presto, nel 1970, esordisce con Balsamus, l'uomo di Satana biografia del Conte di Cagliostro, suscitando immediato interesse. Da quell'istante inizia una carriera stellare, segnata soprattutto dalle interpretazioni di grandi attori come Carlo delle Piane, Diego Abbatantuono e Christian de Sica, solo per citarne pochi. Film memorabili sempre in qualche modo divisi tra genere di luce e di tenebra: segno di una costante tensione nella ricerca speculativa dell'animo umano, in dimensioni vicine all'insondabile.
Per il suo prossimo film ha scelto le atmosfere di Grado: il regista sarà quest'estate nella città friulana per le riprese di Il signor Diavolo, tratto dal suo omonimo libro in pubblicazione per l'editore Guanda.
Pupi Avati, vuol farci un autoritratto o se preferisce una caricatura di se stesso?
«Sono un uomo coerente nel saper essere alternativo nonostante il passare del tempo. Una persona con due caratteristiche essenziali, una forse apprezzabile, l'altra molto meno: la prolificità professionale e l' incapacità di saper guardare al successo altrui con distacco. In ogni caso non ho rimpianti perché la vita mi ha concesso di essere per intero me stesso. Eppure mi capita di sentirmi insoddisfatto e un po' deluso».
I suoi film trasmettono in molte occasioni freschezza e giovinezza, perché?
«Ho vissuto una adolescenza colpevole per eccesso di fretta. Il vero inganno è non saper riconoscere e centellinare certi momenti: sono stati quelli gli anni fulgidi della mia vita».
La maggior parte delle sue pellicole è legata alla provincia, a luoghi da lei frequentati, nostalgia?
«Le cose sono cambiate oggi, quella che racconto io è la provincia della mia memoria. Una realtà che non esiste più e della quale ci siamo liberati senza sostituirla con qualcosa di altrettanto solido».
Eppure, oscillando tra luce e ombra, alcune sue pellicole sono tenebrose...
«Sono cresciuto ascoltando le favole contadine che si fondavano sulla paura, deterrente per tenerci buoni da ragazzini. Seduti tutti in cerchio di fronte a un camino si raccontavano storie di fantasmi. Ci terrorizzava ma accendeva la creatività».
Tornerà a quel genere?
«Sto scrivendo un racconto di paura che diventerà film. È un genere che mi attrae perché mi diverte e mi fa tornare giovane...».
I suoi personaggi emozionano perché sembrano incredibilmente veri. Qual è il segreto che li anima?
«Il fatto di non chiedere mai più di quello che in realtà sono. Ho sempre osservato luoghi e persone quindi ne ho fatto un identikit preciso: la scrittura dei miei soggetti nasce studiando certe tipologie che mi hanno ispirato e a cui riesco a dare vita sul set».
Indimenticabili i suoi Regali e memorabili le interpretazioni di Carlo Delle Piane e Diego Abbatantuono. Possiamo sperare in un sequel?
«Sarebbe difficile con gli stessi interpreti. Non solo io sono diventato un anziano signore. Carlo è ultraottantenne, per dirne una. Ormai potremmo al massimo immaginare una partita a scopa giocata in un ospizio per vecchi...».
Spesso scruta col suo occhio attento i cambiamenti della società che ci circonda...
«La memoria è stata letteralmente cancellata perché tendiamo a vivere solo al presente. E questo è un danno perché senza la comparazione con il passato è impossibile comprendere se il nostro è un percorso evolutivo oppure involutivo».
In che modo è mutato il sistema di far cinema?
«Come per la televisione da tempo esiste una classifica che viene stilata regolarmente basata sui numeri. Altri sono stati i criteri che un tempo hanno fatto grande il nostro cinema, a dispetto perfino degli incassi».
Un professore di greco ripeteva ai suoi scolari che un buon film si vede dalla colonna sonora, è d'accordo?
«Effettivamente l'aiuto che può dare un compositore a un film è notevole ma non dobbiamo dimenticare che la colonna sonora è il pensiero più intimo dell'autore. Naturalmente se questi identici sentimenti si fondono nell'autore e nel compositore siamo di fronte alla nascita di un capolavoro».