A un anno esatto dalla morte

Quanto ci manca Márquez

Quanto ci manca Márquez
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Senta, signorina Màrquez: ieri notte non ho dormito pensando che ho assoluto bisogno di sposarmi, e la donna del mio cuore è lei. Non amo nessun’altra. Mi dica se anche lei ha delle mire spirituali sulla mia persona, ma non si senta obbligata a compiacermi, perché non deve mica credere che io stia morendo d’amore per lei. Le do ventiquattr’ore per pensarci.

Così scriveva nel 1925 Gabriel Eligio Garcia, un giovane telegrafista che aveva da poco preso servizio ad Aracataca (Colombia), alla signorina Luisa Santiaga Marquez, figlia del colonnello Nicholas Marquez. Si sposarono un anno dopo e nel 1928 divennero genitori di Gabriel Garcia Marquez (lo scrittore, ma questa è la falsa prescienza dei posteri). Gabriel trascorse l’infanzia nella casa dei nonni materni, una dimora matriarcale felicemente fondata sulla convinzione che lo straordinario fosse cosa di tutti i giorni. Gabriel e il nonno erano gli unici due uomini in una casa piena di donne. In un’intervista lo scrittore raccontò che «la mia è stata una vita molto bizzarra, perché le donne, che erano comandate da mia nonna, vivevano in un mondo soprannaturale, un mondo fantastico in cui tutto era possibile. Le cose più straordinarie facevano parte della vita di tutti i giorni. Ma mio nonno era l’uomo più concreto che io abbia mai conosciuto. Con lui parlavo di storia, di politica». La morte del colonnello segnò per Marquez la fine di un’epoca: il bambino ritornò dai genitori e fu subito trasferito in collegio.

 

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Dopo avere abbandonato gli studi di Legge, verso cui non nutriva alcun interesse, Marquez cominciò a lavorare per alcuni quotidiani di Bogotà, tra cui El Espectador e El Universal. L’apprendistato giornalistico corse di pari passo con la stesura dei primi racconti, poi raccolti nel volume d’esordio Occhi di cane azzurro (1947-1955). Il surrealismo era finito da un pezzo; in Italia si parlava di neorealismo, di ritorno a una letteratura che parlasse del reale e dei suoi problemi. I poeti cercavano un nuovo linguaggio, oggettivo, non allusivo, sicuramente non ermetico. Marquez, dall’altra parte del mondo, scriveva invece racconti che erano onirico-surreali ed erano tuttavia potentemente reali: si sarebbe parlato di «realismo magico». Ricordiamo, ad esempio, l’ostinazione feroce con cui la protagonista del racconto eponimo della raccolta, Occhi di cane azzurro, cerca nella vita quotidiana l’uomo che incontra in sogno:

«Certe volte, quando mi addormento dalla parte del cuore, sento che il corpo mi si svuota e la pelle sembra una lamina. Allora, quando il sangue mi cozza dentro, è come se qualcuno mi stesse chiamando con le nocche sul ventre e sento il mio stesso suono di rame nel letto. Quasi che fossi come dici tu: di metallo laminato». Si avvicinò di più alla lampada. «Mi sarebbe piaciuto sentirti» dissi. E lei disse: «Se dovessimo mai incontrarci posa l’orecchio sulle mie costole, qualora mi fossi addormentata sul lato sinistro, e mi sentirai risuonare». […] «Io sono quella che arriva ogni notte nei tuoi sogni e ti dice: occhi di cane azzurro». E disse che andava nei ristoranti e diceva ai camerieri, prima di fare l’ordinazione: «Occhi di cane azzurro».

I romanzi Foglie morte (1955), Nessuno scrive al colonnello (1958) e La mala ora (1962) sono in certo senso preparatori del capolavoro Cent’anni di solitudine, pubblicato nel1967 e vincitore del premio Nobel nel 1982 (postilla: con i soldi del premio, Marquez fondò una testata giornalistica, El otro, in Colombia). Il romanzo racconta la storia della famiglia dei Buendia attraverso sette generazioni. Avi, nipoti e trisnipoti condividono gli stessi nomi e spesso gli stessi destini, con un reiterarsi di pantagrueliche bestialità, delicatezze angeliche e laceranti tragedie familiari. Dalla genesi di Macondo, il paese-mondo in cui si svolgono le vicende, fino alla sua distruzione apocalittica, i personaggi si muovono spinti da passioni inveterate e fatali: è invito e contrario all’ aurea mediocritas e insieme accettazione profondamente umana del tripudio della vita, al di là del bene e del male. La poesia si apre a ventaglio, dovunque: è una pianticella acquatica dai fiori gialli, cresciuta nel bicchiere di una dentiera, è l’elevazione angelica di Remedios la Bella, aggrappata a lenzuola fresche di bucato, sono le farfalle che svolazzano attorno alla testa di un meccanico.

 

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L’autunno del patriarca (1975), Cronaca di una morte annunciata (1982) e L’amore ai tempi del colera (1985) appartengono alla fase “matura” della produzione dell’autore. I temi sono gli stessi degli anni giovanili: l’amore, la morte e l’attesa dell’uno e dell’altra; come si vive l’amore e come si vive la morte. Si pensi a L’amore ai tempi del colera. Florentino Ariza è innamorato di Fermina Daza, che però sposa un altro. I due conducono così vite diverse, lontani l’uno dall’altra: Ariza ha molte avventure e Fermina impara a digerire l’amaro dei tradimenti del marito. Florentino, però, rimane aggrappato al sentimento per Fermina e la sua tenacia verrà premiata, anche se in tarda età.

Gabriel Garcia Marquez è morto il 17 aprile 2014 a Città del Messico. Era amico di Fidel Castro ed ex amico di Vargas Llosa, con cui aveva litigato per una questione di donne. Si era ammalato di tumore alla fine degli anni Novanta, ma il cancro lo rese «un uomo fortunato», perché lo riportò alla pratica della scrittura, poco frequentata dopo L’amore ai tempi del colera. Pretendere di ricordare la vita di un uomo in pochi dati è assurdo: per chi volesse saperne di più sulla vita del grande scrittore, rimandiamo all’autobiografia Gabriel Garcia Marquez. Una vita (Mondadori, 2009), scritta dall’americano Gerald Martin in ben 17 anni. Dovrebbe essere esaustiva.

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