Quelli che fanno ancora il presepe (e ne riconoscono tutta la poesia)

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Luciano De Crescenzo, in uno dei suoi libri più gustosi ed esilaranti, divide il genere umano in due: uomini di libertà e uomini d’amore. I primi li riconosci perché preferiscono la pratica e frettolosa doccia, i secondi perché si concedono un lungo, languido, appagante bagno. I primi rappresentano inoltre il popolo degli ‘alberisti’, quelli che a Natale prediligono addobbare un abete con luci, palle colorate e festoni; i secondi sono ‘i presepisti’, uomini d’amore che scelgono invece di raccontare la natività con la fantasia che riesce a far nascere sotto le mani un mondo in miniatura.

Il presepe, appunto. Una rievocazione mistica che mette in gioco tradizioni, memorie, sentimenti, immaginazione e fede (per chi la possiede). Io sono un romantico: se non lo fossi non sarei neppure così intimamente scellerato da aver pensato di fare lo scrittore, di scrivere storie e appunto romanzi, di cui il romantico è necessariamente autore. Ingenuità che si coniuga bene a un infantilismo di fondo che spinge ad amare un ‘mondo rotondo’, perfetto come quello in cui vive la ricostruzione immaginaria del presepe: un universo immoto e ipnotico dove i gesti si ripetono sempre uguali, in cui tutto evoca pace e serenità e nel quale, per dirla con il mio amico Battiato, «le luci fanno ricordare le meccaniche celesti».  Un microcosmo incontaminato che somiglia tanto a quelle sfere di cristallo all’interno delle quali nevica su personaggi incorrotti e incorruttibili, incapace di invecchiare come il paesaggio che li ospita. Il tumulto della vita di ogni giorno, le sue strane regole, il travaglio dell’esistere esigono calma e lunghe pause di silenzio: non l’albero di Natale, ma il presepe può creare questo incanto.

Perfino al momento della fine delle feste c’è una sostanziale differenza tra spogliare l’abete dei suoi addobbi e disfare il presepe, che era un paese di fiaba e presto non esisterà più: come certi mandala creati da monaci tibetani fatti per essere distrutti, che alludono all’impermanenza del tutto. Liberarsi della memoria dopo averla cercata ed evocata per soddisfare un’esigenza spirituale, ma anche per bisogno di allacciarsi a ricordi, o allo scopo di ripetere i gesti di una persona che ti è stata cara. Così come amo cucinare le stesse cose che faceva mia nonna, mi lascio cullare dalla meraviglia di veder sbocciare quel paesaggio inventato, dalle prospettive artefatte e in cui l’impossibile come nei sogni diventa vero.

Mi sorprendo allora a ripetere i gesti di mia madre. E ricordo a ogni pastorello che poso, ad ogni casetta che illumino, a ogni castello che innalzo su montagne di cartapesta gesti, parole, sorrisi e richiami allarmati: «Attento che quello si rompe facilmente…». Era un buffo pescatore con un fil di ferro in mano a imitare una canna da pesca. Lo stesso filo animato teneva su la figurina fatta con un impasto di terra cruda. L’aveva comprata dalla merciaia come le pecorelle e lo zampognaro risparmiando sul biglietto dell’autobus, quando era alle medie: tre chilometri a piedi in salita. Ci teneva a quel pupazzetto strano con la testa incollata alla meglio: erano tempi duri, mi raccontava, e la colla si faceva col sapone o mescolando acqua e farina.

Il presepe allora si preparava sul baule, che era la cassapanca in cui riposava tra la naftalina il corredo di famiglia. Un odore penetrante, acuto e familiare che finiva col mescolarsi al profumo del muschio e a quello di pane della farina usata per fare la neve. Uomini d’amore, ha ragione De Crescenzo, quelli che anche da vecchi tornano bambini a fare il presepe con ricordi talmente vivi da diventare preghiera.

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