Ubi, c'era una volta la “pari dignità” (Brescia usa il Cencelli bancario)

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Ubi Banca ha trovato la quadratura del cerchio, ma gli spigoli sono tutti bergamaschi. L’accordo parasociale tra Brescia, Bergamo e Cuneo sulla presentazione di una lista unitaria per l’assemblea del 2 aprile racconta molto di più di un semplice elenco di 15 nomi. Dice, in maniera inequivocabile, che la Leonessa, forte del suo consistente numero di azioni, non s’è limitata a ruggire, ma ha addomesticato la componente bergamasca. Dice che l’unico manuale utilizzato per la distribuzione delle poltrone è stato il Cencelli e che nella nuova Ubi formato Spa le azioni si contano e non si pesano. Dice infine una cosa un po’ spiacevole: che per i bresciani la “pari dignità” prevista dal nuovo statuto della banca ha un’unica interpretazione, cioè a ciascuno quel che gli spetta. Ben diversamente i bergamaschi, con Ubi cooperativa, avevano applicato la “pariteticità”. Questioni di stile.

Il risultato è condensato in quel “listone” e mentre fino all’altro ieri Bergamo e Brescia si equivalevano in Ubi, nonostante i bergamaschi fossero evidentemente più forti nei numeri in assemblea, con la nuova forma societaria si è tenuto conto, correttamente ma esclusivamente, delle quote azionarie e in un baleno ciò che era diviso a metà è diventato quasi tutto di una parte. È la regola delle Spa e c’è poco da discutere. Nessuno avrebbe impedito però che si applicasse un criterio diverso, più rispettoso della storia dell’istituto di credito e della forza economica delle banche rete, e chiunque sa che la locomotiva del Gruppo, capace di produrre risultati positivi di cui beneficiano tutti, è la Banca Popolare di Bergamo.

Facciamo un passo indietro per spiegare come si è arrivati a questo punto. Il nuovo statuto di Ubi, approvato nell’assemblea straordinaria dell’ottobre scorso, ha portato da 23 a 15 i membri del Consiglio di Sorveglianza, organo supremo di indirizzo e controllo della Banca. Dei quindici candidati, un terzo devono essere donne, in base al principio delle “quote rosa”.

Nelle trattative delle scorse settimane, il “Patto della Leonessa” ha messo sul tavolo il suo 11.95% di azioni, il “Patto dei Mille” il 2.86% e la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo il 2.23% (Cuneo però possiede anche più il 25% della Banca Regionale Europea, una delle banche rete che da sola vale circa il 3% di Ubi). A conti fatti, il peso dei bresciani corrisponde dunque a circa il 70 percento del totale, proporzione rispettata perfettamente nei nomi presenti nella lista ufficiale unitaria. Stilata con il Cencelli, appunto.

Ciò significa che, se non ci saranno sorprese in assemblea, Brescia vedrà sicuramente eletti almeno 8 suoi esponenti (Mario Cera, Francesca Bazoli, Pietro Gussalli Beretta, Pierpaolo Camadini, Letizia Bellini, Giuseppe Lucchini, Sergio Pivato, Alessandra del Boca), Bergamo 3 (Andrea Moltrasio, Armando Santus e Renato Guerini) e Cuneo 1 (Gian Luigi Gola). I tre che mancano per arrivare a 15, con molta probabilità saranno quelli indicati dai Fondi di investimento, che possiedono la maggioranza di Ubi con circa il 40% e che dovrebbero presentare una propria lista limitata a tre nomi. Per tradizione, infatti, i fondi non sono interessati alla gestione diretta della banca. Sarà poi il Consiglio di Sorveglianza a nominare il Consiglio di gestione, ossia il governo vero e proprio di Ubi, ma già voci autorevoli danno che dei 4 componenti non tecnici uno solo sarà in quota Bergamo.

Ai bergamaschi, dunque, non è rimasto che masticare amaro, in attesa di preparare la rivincita fra tre anni con un Patto dei Mille irrobustito. «Fate il passaparola», pare abbia sussurrato qualcuno alla fine dell’incontro di giovedì scorso in Confindustria a Bergamo.

Ma se le proporzioni fra le quote sono stati rispettate, che cosa c’è da recriminare? Niente dal punto di vista formale, tanto più che Bergamo esprimerà ancora il presidente, il riconfermato Andrea Moltrasio. In un consiglio, però, in cui Brescia avrà certamente e comunque una maggioranza schiacciante (8 a 3 o tutt’al più 8 a 4, nel caso in cui i Fondi eleggessero solo due dei loro candidati e allora entrerebbe la bergamasca Luciana Gattinoni). Un’intesa saggia, a nostro avviso, avrebbe invece dovuto tener conto maggiormente del fatto che nel 2007, quando avvenne la fusione, il gruppo ex Bpu (Popolare di Bergamo-Credito Varesino-CommercioIndustria) aveva un utile netto di 600 milioni, mentre Brescia 350. E che dal 2007 al 2015 l’ex Bpu ha prodotto utili per 2miliardi 772milioni, a differenza di Brescia che si è fermata a 1miliardo 190 milioni. Non sono differenze di poco conto.

Qualcuno sostiene che sono considerazioni fatte con la testa rivolta all’indietro. Può darsi. Stefano Ravaschio, in articolo pubblicato sulla Rassegna, pur senza chiamarmi in causa direttamente, lo fa capire senza giri di parole. Mi spiega – e lo ringrazio, perché la sua competenza in materia economica è di certo superiore alla mia  - che il limite di quelli che ragionano come me sta nel campanilismo (vedi l’articolo “Avevamo due bellissime banche”). Scrive Ravaschio con piglio deciso: “Quello che dovrebbe interessare ai vari portatori d’interesse, dai correntisti agli azionisti, bergamaschi e non, dovrebbe essere qualcos’altro. Chi ritiene che la banca abbia avuto un buon andamento negli ultimi anni e soprattutto che si siano messe le basi per un solido futuro dovrebbe essere interessato alla continuità. E da questo punto di vista non si profilano rivoluzioni né rivolgimenti, anche se salgono dai commentatori da bar le lamentele sull’“ennesima banca persa” (dopo la Banca di Bergamo, la Provinciale Lombarda e il Credito Bergamasco), come se un istituto potesse funzionare solo se ha un riferimento provinciale, dimenticando che piuttosto è lo sguardo sempre e troppo ripiegato sui propri passi, sulla propria storia, sulla propria tradizione, sul “si è sempre fatto così” – e, diciamolo, sui propri riferimenti ai soliti centri di potere – che impoverisce e soffoca ogni possibilità di crescita e a volte anche di sopravvivenza”.

Mi permetto di far notare allo stimato collega che con i nuovi assetti la continuità di cui parla non sarà più garantita allo stesso modo, anche solo tenendo conto del fatto che gli equilibri al vertice sono cambiati. Il mio intento non è mai stato quello di rivendicare una banca bergamasca o varesina anziché bresciana, quanto piuttosto quello di avere in Ubi tante banche come la “Popolare di Bergamo”, realtà provinciale fin che si vuole, ma che produce utili come nessun’altra. Su questo – cioè su come si fa una banca per bene - i bresciani hanno tutto da imparare. E sono i numeri a dirci che dopo tanti anni di Ubi, la lezione da loro non è ancora stata assimilata. Non sono poi neppure così sicuro che a far grande una banca non contribuisca in maniera determinante anche il territorio, ma lasciamo perdere.

Tanto più che è probabile che con la banca unica all’orizzonte tutto finirà in un calderone indistinto e che non si parlerà più né di Bergamo né di Brescia e neppure dei diversi risultati prodotti dalle singole banche le quali, lo ribadisco, esprimono diversi livelli di efficienza. C’è da augurarsi piuttosto che i “soliti centri di potere”, a cui si riferisce Ravaschio, non debbano in un futuro non troppo lontano consegnare armi e bagagli a nuovi centri di potere, di cui non conosceremo né i volti né i nomi.

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