Treviolese a tutti gli effetti

Ugo Riva di nuovo contro tutti Artista vero, alla fine dell’Impero

Ugo Riva di nuovo contro tutti Artista vero, alla fine dell’Impero
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Le hanno dato la benemerenza come treviolese illustre. Che ne pensa?

«Temo che vogliano chiedermi una statua gratis (ride, ndr)».

Cosa risponderebbe?

«Indovini...».

Chi è Ugo Riva, che cosa fa?

«Cerco di difendere le mie radici. L’artista deve essere prima di tutto legato alla sua cultura, per poi farsi contaminare. Questo non significa svendere l’anima, ma rinnovarsi, vedere cosa c’è di buono nell’altro, non chiudersi, ma salvaguardando sempre le proprie origini. Nel mio caso le radici sono quelle di un linguaggio figurativo, comprensibile a tutti, un’arte che si rapporti con qualsiasi livello sociale e culturale, che lavori attraverso l’empatia e non nascondendosi dietro a concettualismi strani, comprensibili solo agli addetti ai lavori».

 

 

Parte da questo dunque la sua arte. E poi?

«La seconda questione fondamentale su cui lavoro - e che mi permette oggi di avere una stima e credito a livello internazionale - è data dall’unicità e riconoscibilità della mia opera. Non sono un amministratore delegato dell’azienda “Ugo Riva”, come va di moda oggi. Eseguo personalmente ogni passaggio nella creazione della scultura. Questione di etica. Come potrei apporre la mia firma altrimenti? Un conto è l’opera fatta dall'artista, un conto è quella realizzata da assistenti o collaboratori. Una scelta di operare controcorrente, basata sulla contestazione radicale alle modalità creative dell’arte contemporanea, in cui non conta più l’opera in sé, la sua natura intrinseca di creazione individuale e unica, ma la sua iconicità che prende significati e valenze attraverso manipolazioni coscienti del costume. L’opera d’arte nel ristretto sistema del mercato diventa status simbol. Sono ricco e voglio mostrare la mia ricchezza. Cosa faccio? Acquisto opere da dieci milioni di dollari. Che poi sia uno squalo in formaldeide o un pupazzo in metallo colorato non importa, l'importante che mostri la mia potenza economica».

Lei invece come opera?

«Il mio lavoro è l’esatto contrario. È legato alla qualità intrinseca. L’opera ha sempre avuto una sua qualità intrinseca, legata ai supporti utilizzati, all'invenzione compositiva e iconografica, all'abilità dell’artista. La téchne è l’anima dell’arte, è l'Arte stessa. Un’opera di Leonardo non è un leonardesco. Leonardo ha un suo valore artistico e di mercato, i leonardeschi un altro. Ma l’arte contemporanea è riuscita a far passare l'esatto contrario. Conta l’idea. Tutto il resto lo costruiamo a tavolino. Dal punto di vista commerciale sono stati bravissimi».

Una crisi, dunque?

«Non per una questione economica, ma esclusivamente culturale. Stiamo vivendo un momento buio, dove i valori si sono dileguati, sono dei fantasmi. Siamo nella società liquida di Bauman, non ci sono punti fermi, mancano i santi e gli eroi, dalla politica alla religione, come nel calcio. Le casacche e i credo si cambiano come le mutande. È una prostituzione continua. Ho l’impressione che siamo ai margini di un passaggio epocale. È un po’ come la fine dell’Impero Romano: a un certo punto i “barbari” arrivano e ti ridimensionano»…

 

Articolo completo a pagina 33 di BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 1 agosto. In versione digitale, qui.

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