Un lenzuolo bianco per Gigi
Cinque anni fa Mario Calabresi, il direttore de La Stampa, scrisse un articolo che ho collocato tra le cose preziose del mio lavoro. Si intitolava Il rispetto del lenzuolo bianco e diceva così: «Esiste un gesto antico di pietà che mi torna in mente continuamente in questi giorni, è quello di coprire il corpo di chi è morto in un luogo pubblico. Lo si fa con un lenzuolo bianco, una coperta, un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo. È un gesto codificato dal mondo greco, almeno venticinque secoli fa (anche Socrate si copre il volto mentre muore), e non serve soltanto a proteggere i morti dallo sguardo dei vivi ma anche noi stessi, i vivi, dalla vista della morte. È il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi».
Non solo Socrate. Anche il Cristo del Sanmartino è velato. Molti altri lo sono. Il velo è il modo con cui gli artisti rendono omaggio non tanto al personaggio rappresentato quanto al pudore di chi si reca a onorarne il corpo e la memoria. Ma, proseguiva Calabresi, «oggi si è fatta strada in Italia una strana concezione dell'informazione che si potrebbe sintetizzare in un gesto: quello di sollevare il lenzuolo e spingere tutti a fissare quello che c’è sotto. Molti restano incollati all’immagine terribile, altri sfuggono, alcuni cominciano a provare disgusto».
È una sintesi assai precisa delle reazioni dei lettori, oltre che di quelle dei cronisti, che faceva dire al direttore: «Credo che esista una sostanziale differenza tra il riportare un fatto, il raccontarlo mettendolo nel suo contesto esatto o invece nel gettarlo in faccia a chi ascolta senza alcuna mediazione. È in quella differenza che è nato il giornalismo, che ha trovato un senso e una ragione d'esistere». Richiamando «il motto stampato sulla prima pagina del New York Times (Tutte le notizie che vale la pena pubblicare)» Calabresi provava a sgomberare il campo dall’idea che la cronaca si faccia calando un microfono o una telecamerina in un ambiente qualsiasi e mandando tutto in onda. Al contrario, il mestiere di giornalista «prevede che ci sia una selezione che scarti ciò che non vale. Dobbiamo continuare a raccontare e a svelare senza sosta, dandovi [ai lettori, ndr] ogni elemento utile a comprendere (...), ma rifiutando di farci casse di risonanza di ciò che trasforma noi e voi in "guardoni"». O sciacalli.
Parole pesantissime, che mi sono tornate in mente dopo aver visto come i giornali, i nostri giornali locali, hanno trattato la storia di Gigi Parma, il titolare del Maguire’s Pub che se n’è andato in maniera tragica. Ormai lo sanno tutti: c’è stato un incendio nel suo locale, poi un’esplosione, e lui, che era tornato lì dentro alle 4 del mattino, è morto. Ma quando gli investigatori hanno lasciato intendere che all’origine del rogo poteva esserci stata la volontà dello stesso Parma di trovare una scorciatoia sbagliata a una situazione economica compromessa, alcuni cronisti hanno voluto sollevare il lenzuolo bianco: quanti debiti aveva? Con chi? Fino a che punto era disperato? Magistratura e assicurazioni indagheranno nel tentativo di giungere a conclusioni che consentano di prendere gli opportuni provvedimenti in termini economici e di legge. Ma è compito dei giornalisti anticipare le indagini? La sofferenza o la morte non sono, in casi come questo, un prezzo più che adeguato per fermarsi e fare un passo indietro?
«Non si tratta di censurarsi - concludeva Calabresi - ma di valutare e di non far prevalere soltanto il criterio degli ascolti, del numero di copie vendute o dei click su internet». Non si tratta, si potrebbe aggiungere, di fare i bacchettoni o di scandalizzarsi, ma crediamo che si potrebbe evitare - in certe occasioni - di lasciarsi andare.