«Da grande sogno una famiglia»

«Piacere, Giacomo, uomo di teatro nato in un corpo di donna»

«Piacere, Giacomo, uomo di teatro nato in un corpo di donna»
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Quella di Giacomo è una storia di confini, labili, più di quanto siamo disposti a credere; la sua è una lotta contro la cattiveria, l’ignoranza, la banalizzazione; una lotta silenziosa, personale, involontariamente esemplare, fatta di esigenze e sentimenti profondi, impossibili da ignorare. Una storia, in fin dei conti, normale, e che appunto per questo dà fastidio a chi confonde, in buona o in cattiva fede, la “normalità sociale” e quella umana. In altre parole, una storia di odio allo specchio che pian piano, tra una puntura di testosterone e una seduta dallo psicologo, si è tramutato in amore, soddisfazione, accettazione; una storia di disagio che è diventato – sta diventando – liberazione: la storia di Giacomo Arrigoni Gilaberte. Che però sulla carta di identità ha ancora scritto “Jessica Arrigoni Gilaberte”. E le bibliotecarie, quando lo guardano in faccia dopo aver letto il nome sul documento, sono molto confuse. E Giacomo ride. Finalmente.

Da Jessica, bambina vivace amante del calcio, a Giacomo, promettente teatrante di ventisei anni. Cosa è successo?
«Ho iniziato a guardarmi allo specchio. Del mio corpo non funzionava niente, non tornavano i conti. Non riuscivo a guardarmi nudo, mi sentivo a disagio. Mi dicevo che era normale a sedici anni, poi che era normale a diciotto, poi che era normale anche a venti. Insomma, davo colpa all’adolescenza, al fatto che magari “fossi grassa” e per questo non mi piacessi. Fare la doccia era diventato impossibile, non riuscivo a tollerare la vista del mio corpo. Mi immaginavo con la barba, e mi piacevo. Non capivo perché».

E poi?
«E poi un giorno mi è capitato per caso di vedere una puntata del Testimone di Pif in cui venivano intervistati dei ragazzi che avevano cambiato sesso, da femmine a maschi. Le loro testimonianze rispecchiavano in pieno quello che sentivo. Per me è stata una rivelazione, ho capito cosa dovevo fare. Mi hanno presentato degli amici che avevano intrapreso quel percorso, ho incontrato anche gli stessi ragazzi che erano stati intervistati da Pif. Loro erano felici, io no: a quel punto mi sono rivolto allo sportello Trans ALA di Milano, il più importante sportello trans qui dalle nostre parti».

 

 

E hai iniziato il tuo percorso.
«Non è stato facile, ho fatto un anno di sedute psicologiche. Ora sono sicuro della mia identità, allora non era così. La prima volta che sono entrato nello studio della psicologa non avevo la minima idea di chi fossi. Un anno dopo ho ricevuto il “via libera” per intraprendere la transizione ormonale».

E nel tuo caso in cosa consiste?
«Mi sono rivolto all’ospedale Niguarda di Milano: non si tratta solo di iniezioni di testosterone una volta al mese circa, devi essere seguito da psichiatri, psicoterapeuti, endocrinologi e via dicendo. Anni fa si verificavano tantissimi casi di trans “fai da te” che si iniettavano senza criterio dosi di testosterone che il corpo faticava a reggere. Oggi abbiamo la fortuna di essere seguiti e di avere qualcuno di competente che ci può dire come e cosa fare».

Come ha reagito la tua famiglia?
«Bene. Come tutti quelli che conosco. Sia la parte più religiosa della mia famiglia che quella meno ha guardato con rispetto alla mia scelta. Tutto quello che mi sono sentito dire dal giorno della prima puntura è “finalmente ti vedo sereno”. Sono stato fortunato. Capita ancora a volte, soprattutto in famiglia, che ci siano le classiche gaffe sul nome. Ma ci si ride sopra. L’ironia aiuta tantissimo».

A proposito di gaffe, facciamo un po’ di chiarezza sui termini.
«Io sono un uomo, da sempre. Nato in un corpo da donna. “Transessuale” è quindi uno degli aggettivi che mi si possono attribuire. Sono un uomo (transessuale), e non una donna (transessuale). Chi fa il percorso inverso rispetto a me, da maschi a femmine, saranno quindi donne (transessuali). È importante fare chiarezza su questo perché c’è ancora molta confusione».

La tua famiglia ha reagito bene. Bergamo invece?
«Io credo che a Bergamo, così come più o meno ovunque, le persone siano molto più pronte rispetto a quello che si crede. Soprattutto le nuove generazioni, certo, ma in generale non ho trovato mai ostilità. Confusione, spesso ignoranza, ma non ostilità. Sono sempre stato rispettato. I veri problemi sono altri».

 

 

Cioè?
«Il vero problema sono le istituzioni».

Ad esempio?
«Ricordo tre anni fa che il mio medico di base aveva commentato la mia decisione chiedendomi se fossi “davvero sicura”. Per lui era “un vero peccato”. Lo ha detto mentre mi guardava in mezzo alle gambe… Stesso discorso per un infermiere in un ospedale, che una volta scrutando perplesso i miei documenti mi ha chiesto in modo brusco se fossi uomo o donna. Mi aspetterei che chi lavora in certi settori avesse più cura e rispetto delle persone che si trova davanti. Ma ormai me ne frego, ci rido sopra, ci mancherebbe. Per non parlare poi delle liste di attesa per il cambio documenti: capisco che i tempi siano lunghi, ma basterebbe un documento provvisorio per sbrigare senza disagio almeno le faccende più banali, come ad esempio andare in posta o prendere alcoolici al supermercato. Esibire i documenti è la principale causa di disagio, per me e per chi li vede».

Abbiamo parlato fino ad ora di quello che è stato Giacomo fino ad oggi. Ma chi è ora Giacomo? Cosa vuol fare “da grande”?
«Lo sto scoprendo: quando sei sereno e stai bene con te stesso è più facile sentirsi liberi di desiderare e di avere ambizioni. Direi che oggi Giacomo è un uomo di teatro. Attualmente recito in due compagnie, “Figli Maschi” e “Atopos”, e frequento vari workshop per specializzarmi in diversi ambiti legati a questo mondo, dalla scenografia ad aspetti tecnici della messa in scena, come ad esempio le luci».

Nei tuoi spettacoli racconti la tua storia?
«Assolutamente sì. In Atopos una delle domande che Marcela Serli (la regista) rivolge sempre al pubblico è: “Si può fare arte con la propria identità?”. Ecco, io sto cercando di fare arte con la mia identità».

Ad esempio? Parlaci dei tuoi spettacoli.
«Atopos è una compagnia formata perlopiù da persone transessuali. Portiamo in giro spettacoli dal taglio comico, grottesco, umoristico, tra cui ad esempio The Gender Show e Variabili Umane. Figli Maschi invece è nato come un laboratorio di teatro. Quando ci siamo accorti che quello che facevamo poteva essere messo in scena, non ci abbiamo pensato due volte. Nello spettacolo Figli Maschi, che ha dato nome alla compagnia, ho un monologo in cui parlo, con intento anche abbastanza umoristico, del mio rapporto con i peli».

In che senso?
«Recito radendomi con il rasoio: l’idea è richiamare quelle “voci” secondo cui radersi con il rasoio incentivi la crescita dei peli. Un gesto che una ragazza tendenzialmente evita per lo stesso motivo per cui io lo cerco. Ironia della sorte, nonostante il testosterone, ho comunque pochissimi peli. Molte mie amiche ucciderebbero per averne così pochi, mentre io sogno la barba. Questa è solo una piccolissima parte dello spettacolo: in generale è uno spettacolo che parla dell’essere maschi. Ora ne stiamo preparando un secondo sul tema dell’eroe e del rapporto tra Achille e Patroclo».

 

 

Secondo te è più difficile fare la transizione da maschio a femmina?
«In un certo senso sì, per ragioni di discorsi di genere. Ho delle amiche che sono state letteralmente chiuse fuori di casa. In queste cose si intravede un certo maschilismo comunque radicato, più o meno volontariamente. Un pensiero comune è chiedersi per quale motivo un uomo dovrebbe rinunciare alla sua mascolinità e a tutti i privilegi sociali che l’essere maschio comporta».

E qual è la risposta?
«Direi che la domanda in sé non sussiste: essere trans non è una scelta, è un’esigenza. Vivere un’identità che non ti appartiene è una farsa, una finzione. L’alternativa è fingere per tutta la vita, fino ad arrivare ad odiarti, a farti anche del male. Ogni tanto qualcuno mi chiede se essere trans sia una “moda”. Non si soffre per moda, non si cerca la serenità per moda. Il fatto che oggi se ne possa parlare, non significa che sia una moda».

A che punto sei del tuo percorso?
«Sto aspettando il permesso del tribunale per la rettificazione anagrafica e per le operazioni chirurgiche al petto e ai genitali. A quel punto le liste di attesa per l’operazione pubblica sarebbero di circa sei mesi. Ma non so ancora se mi opererò».

Come mai?
«Sono operazioni molto invasive e voglio rifletterci bene. Mastectomia (asportazione delle mammelle) e isterectomia (asportazione dell’utero) sono caldamente consigliate a livello medico per evitare eventuali formazioni cancerogene, quindi mi ci sottoporrò non appena possibile. Sulla falloplastica invece nutro i miei seri dubbi; la ricerca medica non è ancora arrivata a risultati molto soddisfacenti. Forse, come sto facendo, devo solo uscire dall’immagine stereotipata dell’“uomo medio” e imparare ad andar d’accordo con quello che ho tra le gambe. Un po’, del resto, come tutti gli altri uomini…».

Ci salutiamo con un ultimo pensiero?
«Volentieri. Vorrei citare le parole, che usiamo anche in una parte dello spettacolo Figli Maschi, di Paul B. Preciado, attivista trans, che ha scritto all’interno di un articolo intitolato Il coraggio di essere me, e che penso siano molto importanti per tutti: "Ma visto che vi amo, miei coraggiosi simili, vi auguro di perdere anche voi il coraggio. Vi auguro di non avere più la forza di ripetere la norma e di fabbricare l’identità, di perdere la fede in quello che dicono i vostri documenti su di voi. E una volta che avrete perso il vostro coraggio, stanchi di gioia, vi auguro di inventare un modo per l’uso del vostro corpo. Proprio perché vi amo, voglio che siate deboli e disprezzabili. Perché è attraverso la fragilità che opera la rivoluzione"».

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