15 lezioni di Moro sulla montagna

Siamo dei fan accaniti di Simone Moro, come molti altri bergamaschi e altrettanti appassionati di alpinismo. Settimana scorsa eravamo in prima fila alla conferenza che Simone ha tenuto a Cornalba; al termine del racconto, siamo corsi al banchetto dei libri per acquistarne uno prima che finissero. Poi ce lo siamo fatti anche autografare da Simone, che ci ha salutati con un sorrisone. Il volume si intitola La voce del ghiaccio; l’abbiamo scelto per il sottotitolo, che recita: Gli ottomila in inverno: il mio sogno quasi impossibile. Un libro quindi perfetto per approfondire la cifra che rende unico Simone; e infatti la lettura non ci ha deluso. Scritto nel 2012, durante il primo tentativo di ascensione invernale del Nanga Parbat insieme a Denis Urubko, racconta in sostanza tutte le più emozionanti e importanti vicende dello scalatore orobico sui ghiacci più impervi del mondo. Un libro pieno di saggezza e intelligenza, un buon senso tutto bergamasco, anche di fronte all’avventura estrema degli ottomila. Un condensato di coraggio e disciplina, di ambizione e rispetto dei limiti. Ne abbiamo estrapolato quindici lezioni sulla montagna e sull’alpinismo.
1) Ragione e sentimento
«In questo genere di spedizioni si deve stare decisamente molto attenti a ogni piccolo particolare per tornare a casa non solo vivi, ma anche tutti interi, senza incorrere in tremendi congelamenti con conseguenti amputazioni. […] Si devono perciò osservare in maniera maniacale regole categoriche di comportamento e di controllo da effettuare personalmente, in tema di orario di arrivo in vetta, di costante monitoraggio della velocità, di operazioni e fasi alpinistiche che non devono essere mai delegate. Inoltre, tutte le decisioni vanno tassativamente prese seguendo la ragione e non il sentimento o l’impulso, a volte obnubilati dal desiderio di successo e dall’ambizione. Per voler vincere a tutti i costi, spesso si muore o, nella migliore delle ipotesi, ci si salva per il rotto della cuffia».
2) Guardarsi dentro
«Su una montagna, specialmente in alta quota, non bisogna guardare troppo gli altri, ma guardarsi dentro, ascoltarsi. In altitudine non esistono persone forti e altre meno forti, ma gente che in quello specifico giorno sta bene o sta male. Potrei fare un lungo elenco di incidenti “telefonati” in alta montagna, in spedizione, e di altri dove invece la fatalità ha giocato da protagonista, ma penso che le percentuali siano sbilanciate maledettamente verso la prima casistica».
3) Non esiste una verità assoluta
«Sono stanco di rispondere a chi mi chiede di esprimere dei giudizi, di fare classifiche: non esiste una verità assoluta, un’etica “giusta”, un modo “vero” di fare alpinismo. Anch’io, sbagliando, sono caduto a volte nel tranello di dare definizioni e davvero vorrei non essere recidivo. Ecco perché racconterò del mio alpinismo invernale esattamente come se fosse la mia faccia, la mia carta di identità. Non ne esistono di migliori o peggiori, di giuste o sbagliate. Ognuno ha la propria ed è giusto che racconti quella».
4) Mezzo e non fine
«Il mondo verticale non era il fine della mia esistenza, ma il mezzo attraverso il quale stavo crescendo, scoprendo il mondo e perlustrando la parte più sconosciuta ed entusiasmante della vita: me stesso. Abbandonare l’alpinismo (dopo i fatti tragici sull’Annapurna nel 1997 e la morte dei compagni Dimitri Sobolev e Anatoli Boukreev, ndr) avrebbe significato smettere di esplorarmi, qualcosa che non potevo e non dovevo accettare».
5) La tenacia dei polacchi
«Erano stati i polacchi a iniziare, a inventare l’alpinismo sui giganti del pianeta nella stagione fredda, quella più severa, spietata. A causa delle ben note condizioni politiche ed economiche del loro Paese, infatti, non avevano partecipato alla conquista dei vari ottomila negli anni Cinquanta e Sessanta; ma nei decenni successivi decisero di dare vita a un nuovo tipo di conquista, quella invernale. […] Le ragioni [di questa supremazia polacca] potrebbero essere tante, ma una è certa: la grinta e la tenacia degli scalatori polacchi hanno rispecchiato quelle di un intero popolo sottoposto per secoli a privazioni che ne hanno forgiato il carattere e la volontà. […] La differenza stava nella mente e nello spirito più che nei muscoli e nelle abilità tecniche».
6) La prospettiva sulle cose
Durante il primo tentativo di ascesa al Shisha Pangma: «Avevamo sete, freddo, fame e non vedevamo l’ora di entrare nella nostra “lussuosissima” tendina a sbalzo. È incredibile come la prospettiva sulle cose possa cambiare a seconda delle situazioni: qualche giorno prima la tenda sembrava il bivacco più scomodo del mondo, quella sera era per noi un albergo a cinque stelle».
7) Regole e necessità
«Non ero mai stato abituato ad adattare le regole etiche, sportive e sociali alle mie necessità e, se l’inverno comincia il 21 dicembre, io mi rifiuto di raggiungere il campo base prima di quella data. E non è solo una questione di numeri. Fino alle prime due settimane di dicembre, infatti, di solito le condizioni meteo sono perfette e dunque le operazioni di avvicinamento, montaggio del campo base, attrezzatura della parete ecc. avvengono in condizioni ottimali».
8) Avventura ed esplorazione
«Per me quella salita (del Shisa Pangma, ndr) era stata la conferma di un principio che avevo caparbiamente tentato, non sempre con successo, di portare avanti: quello di un alpinismo che non clonasse per forza le esperienze già fatte da altri. […] Le parole (abusate) “avventura” ed “esplorazione” sono i cardini su cui ho basato il mio modo di vivere l’alpinismo. […] L’alpinismo che mi ha ispirato è quello fatto dai grandi del passato, da Cassin, Bonatti, Messner, solo per citare i miei connazionali […] accomunati nella loro essenza più autentica dal desiderio di esplorazione, anche e soprattutto personale, di affrontare l’ignoto, di superare il limite, di appagare la loro fame di conoscenza. […] Il mio grande sogno, la mia ispirazione e il modo di vivere: continuare oltre le tracce lasciate dai miei grandi maestri».
9) Rinunciare è da virtuosi
«Ho dunque “fallito” un numero considerevole di volte proprio per evitare che quell’avventura fosse l’ultima. A duecentocinquanta, a centosessanta, persino a novanta metri dalla cima è capitato che dicessi “stop” e tornassi indietro. Gli sciacalli e gli idioti hanno così trovato terreno fertile per attaccarmi, per sventolare bandiere e suonare trombe di giubilo a ogni insuccesso, ma io non mi sono mai vergognato delle mie decisioni. La rinuncia non è da sfigati, è da virtuosi».
10) La scuola di alpinismo in Pakistan
«L’idea di fondare in Pakistan una scuola di alpinismo aperta sia a ragazzi sia a ragazze era nata durante la prima delle due esperienze invernali al Broad Peak. […] La scuola si sarebbe chiamata Shimshal Mountaineering School. […] Dopo pochi mesi la scuola era divenuta operativa, unica nel suo genere in tutto il Pakistan».
11) Un sogno comune
A proposito dell’amico e compagno di imprese Denis Urubko: «Mi piacerebbe molto che si ricordasse l’alpinismo di Denis e mio come l’unione di due personalità, abilità, caratteri e fantasie che sono stati in grado di fondersi perfettamente per perseguire un sogno comune. La condivisione del successo è un valore, un cardine dell’esistenza e della convivenza. Con Denis ho trovato davvero l’intesa perfetta».
12) Nuova linfa al movimento
«Alla fine del 2009 decisi di fermarmi un momento per capire che cosa avevo scatenato con la salita invernale del Shisha Pangma e del Makalu. Innegabilmente avevo dato nuova linfa a un movimento, a un modo di vivere ed esplorare la montagna, quello in invernale, ormai quasi del tutto trascurato. A partire dal 2005, infatti, ogni anno si contano almeno quattro o cinque team che si cimentano con questo tipo di spedizione, cosa che, oltre a essere un gran bene per l’alpinismo in generale, mi rende anche un po’ orgoglioso per aver ridato vita allo stile creato dai polacchi negli anni Ottanta».
13) Avere una famiglia
«Certo non è facile per un alpinista avere una famiglia e una relazione stabile e duratura se è nomade per almeno metà dell’anno, impegnato in qualche spedizione. Intendo l’espressione “avere una famiglia” nel suo senso più pieno, partecipativo ed educativo. Con Barbara mi sembra però di aver raggiunto un buon equilibrio, nonostante la sottoponga a notevoli tour de force […]. Barbara però si è abituata in fretta a questa mia vita nomade. Anzi, mi ha accompagnato nei più sperduti angoli del pianeta, ha partecipato ad alcune spedizioni e, nonostante ora ci sia anche Jonas (il figlio, ndr), riesce comunque a sostenermi e supportarmi (o sopportarmi) in questa vita apparentemente folle portando avanti serenamente il nostro rapporto e la nostra famiglia».
14) Essere pragmatico (e inquinare poco)
«In tanti anni ho imparato a essere pragmatico e lucido nel valutare il modo migliore per arrivare al campo base, mettendo sul piatto della bilancia i pro e i contro da ogni punto di vista, logistico, ambientale, umano e anche mediatico. […] A volte non si deve ragionare per impulso o in termini “poetici”, bensì usando una massiccia dose di realismo e matura consapevolezza: era evidente che (per raggiungere il Gasherbrum II, ndr) usando i portatori avremmo inquinato, speso e rischiato molto di più che noleggiando un elicottero. In due sole ore di volo (una per l’andata e una per il ritorno) la nostra spedizione avrebbe consumato meno kerosene, inquinato meno, rischiato meno congelamenti e problemi dei portatori».
15) Comunicazione e tecnologia
«La comunicazione e la tecnologia sono diventate da qualche anno tema di attacchi furibondi, pretestuosi e spesso maleducati da parte di una ristretta ma rumorosa schiera di imbecilli. Costoro vorrebbero un’esplorazione silenziosa, non raccontata, sofferente, eroica, quasi drammatica. Ovviamente è tutta gente che scrive e parla con le chiappe al caldo, che non ho mai incontrato nei miei inverni su una montagna […]. Com’era accaduto per il Makalu, e per quasi tutte le spedizioni che ho deciso di raccontare, ci fu qualcuno che seguì quella al Gasherbrum II e la criticò perché avevo il satellitare e potevo comunicare. Come se quei pezzi di plastica a batteria rendessero il freddo meno intenso e i pericoli solo virtuali».