Antonia, una vita vissuta con grazia

La chiamo al telefono alle due di pomeriggio di un lunedì qualunque, e imposto il tono di chi si prepara a un’intervista: gentile, composto, pronto a indietreggiare o ad avanzare. Ma non servirà: sarà tutto molto più onesto. «Ah sì, buongiorno! Dov’è, qui alla porta di casa?», mi risponde, cristallina, lei. Non ci siamo intese. Io le ho dato appuntamento per una chiacchierata telefonica. Lei invece mi ha messo su il caffè. Lo immagino diventare freddo, mentre parliamo, e mi dispiace tantissimo. Ma lei credo me la perdoni senza problemi, mentre mi regala una delle mezzore più piene di grazia della mia vita.
Antonia Locatelli, 71enne laica, nata e da poco ritornata in Borgo Santa Caterina, ha appena ricevuto il premio Papa Giovanni XXIII, che Centro Missionario Diocesano e Fondazione «Papa Giovanni XXIII» consegnano annualmente a tre missionari bergamaschi per «l'impegno di evangelizzazione, cooperazione e sviluppo, promosso attraverso la Chiesa universale». Un’onorificenza alla bontà, insomma. Non ne è stata felicissima, a dire il vero, all’inizio, per quel concetto oggi un po’ demodé che il bene si fa in silenzio. Poi comunque ha pensato che era un riconoscimento non solo per lei, ma per tutti i laici, per tutte quelle persone non consacrate che hanno dato la loro vita per la missione. «Forse han scelto me perché sono qui a Bergamo in questo momento, ma non penso di avere più meriti di altri, anzi, son sicurissima».
E poi, delle Ausiliarie di Maria Madre della Chiesa, cui appartiene dall’inizio degli anni Settanta, non si è mai parlato, e loro preferiscono da sempre così. Fondate nel ’67 da monsignor Lionello Berti, oggi sono un istituto secolare che si sta esaurendo: sono rimaste solo in due. In realtà, le parole schiette che sceglie per rispondere e le sue risate apertissime nella cornetta del telefono più che obbedienza a uno statuto evocano libertà. Sembra che, in una vita sudata e tutta regalata agli altri, ci sia una sorta di filo sottilissimo e infrangibile a regalarle grazia. Un respiro largo che suona. Come una corda di violino. «Una vita ordinaria diventa straordinaria per la semplicità e intensità con cui è vissuta», dice la motivazione del premio. Sì, forse è questo. Più la Grazia.
Antonia è nata a Bergamo, nella cattolicissima Bergamo di metà anni Quaranta. Dove perder Messa è ancora peccato mortale. Quindi non va all’oratorio, ma a Messa sì, sempre. E con le sue amiche: ama i suoi affetti di qui, la sua terra, in cui si trova tanto bene. A Messa si annoia, come tutte le ragazze quando il prete la tiene lunga. Parlotta con le altre, mentre lui dal pulpito dice: «Anche oggi, in questa assemblea, il Signore chiamerà qualcuno». Lei pensa: «Non parla di me». Se lo ricorda ancora adesso. «Ero sempre stata lontana da quest’idea della missione: pensavo a una vita normale, a un matrimonio, dei figli. E invece questa cosa è cresciuta dentro di me, è tornata a galla, e ho dovuto metterci mano. Ci si arriva così, senza un perché. Poi il Signore ti fa incontrare certe persone. A me piaceva tutto, qui a casa, non è che avessi bisogno di cercare altro. Però poi, quando si comincia...». Qui ride. Ride spesso, in questa mezzora. E, nel ridere, passa nel telefono un senso di pace. Perché da laica e non da consacrata? «Avevo questo desiderio di approfondire la mia relazione con Dio, di fare una scelta importante, una scelta di vita, però di farla nel mondo, senza distinzioni, con umiltà, vivendo come tutti gli altri».
Non è partita da nulla, comunque, Antonia. Nel ’72, a ventisette anni, quando lascia la comoda Bergamo per approdare in Laos, ha già studiato da infermiera e ha sempre amato prendersi cura di anziani e ammalati. Nella capitale reale dello Stato asiatico, con la comunità delle Ausiliarie, che hanno appena perso il loro fondatore, gestisce un centro dove i ragazzi possono studiare, poi un altro d’appoggio alla scuola. E poi si occupa di una posta sanitaria, mentre una sua amica manda avanti un piccolo asilo. C’è la guerra, in Laos. Poi arriva l’armistizio. E poi, il comunismo. E gli stranieri, figuriamoci i missionari, se ne devono andare. Espulsi. È il ’75, dei villaggi in cui opera non resterà nulla. Rientrata a Bergamo, lavora come infermiera per un po’. Dal ’78 all’80 va nelle Filippine. Si ammala e torna a casa, crede che la sua vita missionaria sia finita e inizia a lavorare ai Riuniti, reparto Maternità. Nel ’92 va in pensione. Ma una sua collega da qualche tempo si reca in Bolivia con il marito: «Sai, abbiamo cominciato un servizio, sarebbe bello continuarlo...», le dice. Antonia parte. A una sessantina di chilometri da Cochabamba, aiuta il piccolo ospedaletto e si muove in un raggio d’azione grande come la Bergamasca. Ci resta fino al 2004. Poi è ancora a Bergamo per due anni. Ma lo sa, che non è destinata a restare. Va di nuovo in Bolivia, dove dedica le sue giornate a ragazzi di strada, alcolisti e drogati, una sessantina di persone che vivono nel centro per due anni, un tempo in cui inizia la loro riabilitazione e, se si riesce, li si fa studiare.
È il 2016, tre mesi fa. Va tutto benissimo. Ma Antonia torna a casa, in Borgo Santa Caterina, per restarci. Sente dentro di sé che è giusto così: «Se è la volontà del Signore, sarà la mia volontà. Ma mi sembra che questa volta non sia per ripartire». È serena, questo bisogna dirlo. Del resto, si affida. A leggere la sua storia forse viene un po’ di mal di mare, tra tutti quegli andirivieni transoceanici, e si ha la sensazione di un’inquietudine di fondo. Ma è l’impressione sbagliata. È semplicemente come se, per tutta la vita, qualcosa (o qualcuno) l’avesse portata da un angolo all’altro del mondo in palmo di mano, senza stringere mai, senza metter mai fretta. Con grazia. Appunto. Così, adesso è a casa. Che ci fa qui? «Un po’ di vacanza». Ma dai. E infatti no: «Poi fino a pochi giorni fa avevo qui con me una boliviana che aveva bisogno di attenzioni mediche. E mi piacerebbe conoscere un po’ di più questo fenomeno degli immigrati, ho fatto qualche visita in Patronato...». «Si sta mettendo nei guai di nuovo, insomma». Ride, ancora: «Sì, mi sa che ha ragione, sì».
Sembra persino, nella calma gentile con cui risponde, che non abbia mai avuto paura. Ha mai avuto paura? «All’inizio, soprattutto in Laos, io, abituata in città, a volte mi sentivo mancare l’aria, anche se ero in mezzo alla foresta. Sentivo nostalgia di tante cose, e quante volte mi sono chiesta se avevo sbagliato. Poi dicevo: “No, scusa, questa cosa non te la sei inventata tu, sta’ un po’ tranquilla”». L’ho detto: si affida. Poi comunque c’è quel sano senso pratico che rimette tutte le cose al loro posto: «Ma guardi che è come col matrimonio eh, se uno dovesse sapere cosa gli succede dopo, non si sposa più!». Poi ci sono sempre i Salmi, in cui trovare conforto. E la fede, quella vera, quella che quando la incontri la riconosci, tanto che la senti brillare persino di là da una cornetta: «Credere per me è conoscere un po’ di più la vita di Cristo, mettersi dentro. Come i discepoli di Emmaus. Tu cammini, a volte sei desolato, a volte non sai più cosa fare della tua vita, e poi ti senti dire delle cose che non avresti mai pensato. E lì incominci a capire che quelle cose vengono da chi ti vuole bene, e chi ti vuole bene se non Dio». Un ricamo, ho pensato qui. Quella mano non l’ha solo sollevata e portata di qua e di là per il mondo, della sua vita ha fatto un ricamo. Ma con una delicatezza, con una dolcezza che niente, eccoci qui, davanti alla Grazia. Lo so, è la quinta volta che uso questa parola, ma non ce n’è, davvero, una migliore.