Antonio Carminati, custode e cantore dell'anima profonda della Valle Imagna
È direttore del Centro Studi più fecondo di tutta la Bergamasca: «Restituire valore a una storia e a luoghi dimenticati»

di Bruno Silini
Un idealista con i piedi per terra, fedele al motto mahleriano che intende la tradizione come la salvaguardia del fuoco e non l’adorazione della cenere. Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna, crede in un retaggio storico e nell’identità della montagna, saccheggiata dall’industrializzazione degli anni Cinquanta, capace di generare un’innovazione virtuosa declinata in attività economiche e posti di lavoro.
Partiamo dalle origini del Centro Studi Valle Imagna. Cosa l’ha spinta a fondarlo?
«È nato da un gruppo di persone accomunate dall’amore per il nostro territorio e dalla consapevolezza che molte delle sue ricchezze culturali e storiche erano a rischio di scomparsa. Negli anni ’70 e ’80, le valli bergamasche sono state profondamente segnate da una forte spinta edilizia speculativa, che portò alla costruzione massiva di seconde e terze case, lasciando abbandonati o distrutti edifici tradizionali come antiche abitazioni, stalle, contrade e mulattiere. Il nostro obiettivo iniziale era sensibilizzare la popolazione sull’importanza di preservare il patrimonio edilizio rurale e promuovere un modello di sviluppo che rispettasse la storia e l’identità del territorio».
Come avete iniziato?
«Con incontri informali di venti, trenta persone. Discutevamo idee e strategie per fermare questo quotidiano stillicidio, fino a costituirci formalmente il 31 gennaio 1997 come associazione. Eravamo un piccolo gruppo, ma la nostra passione ci ha permesso di crescere rapidamente».
Donne c’erano?
«Sì. Per esempio, la signora Antonia Rumi, figlia del pittore Donnino Rumi. Oppure la professoressa Fina Adelaide, moglie di Costantino Locatelli».
Perché l’edilizia rurale era un tema così centrale nelle vostre attività?
«L’edilizia rurale rappresenta molto più che un insieme di edifici. Racchiude la storia, le tradizioni e l’identità delle comunità che hanno vissuto in queste valli nei secoli scorsi. Con la crescita dell’edilizia moderna, spesso invasiva, molte strutture tradizionali sono state abbandonate o distrutte, con il rischio di perdere una parte fondamentale del nostro patrimonio culturale. Ricordo bene come, in passato, venivano presentati progetti dove era assoluta la prevalenza del calcestruzzo e come abbiamo dovuto insistere affinché venisse utilizzata anche la pietra locale per muri, pavimentazioni, tetti. Era necessario riportare l’attenzione sulla qualità e sulla bellezza del costruire secondo le radici locali. Inoltre (...)