«Il valore più importante è l'affidabilità»

Baldassare, cavaliere (del Lavoro)

Baldassare, cavaliere (del Lavoro)
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«È il nostro orgoglio». A dirlo è una dipendente della Baldassare (sì, con una sola erre) Agnelli dopo aver salutato il suo datore di lavoro, appena rientrato da una mini crociera e neo Cavaliere del Lavoro. La signora è soltanto una dei circa cinquecento dipendenti delle aziende del Gruppo Agnelli. Si va dalla AluGreen, fonderia che raccoglie i rottami per creare billette o pannetti di alluminio, alla Alexia, la trafileria, fino alla Alu-Project, che progetta e realizza oggetti di design in alluminio. Un universo dell’alluminio nato nel 1907 dalla Pentole Agnelli, l’azienda fondata da nonno Baldassare e produttrice di pentole professionali. Mica roba da poco, in Italia: «Da noi la cucina è storia, cultura: la padella che va bene a Milano non va bene a Napoli o a Bologna. Le caratteristiche delle nostre produzioni sono figlie di tradizioni locali, non le ha inventate nessuno». Il Gruppo Agnelli fattura circa 150 milioni di euro l’anno, di cui il quindici per cento circa dall’estero.

 

 

È sorpreso della nomina a Cavaliere del Lavoro?
«Non ci avrei mai creduto. Pensavo che per entrare in quei giri bisognasse essere dei giganti, avere delle conoscenze. Però mi sono ricreduto. Sono venuti qua, hanno intervistato i dipendenti, hanno controllato i bilanci, i fatturati. Ho capito che è una cosa che premia davvero il merito più che i fatturati. Hanno guardato alla persona e questa è la cosa che mi rende più felice. Anche se non sono io che ho ottenuto questo titolo…».

E chi allora?
«Be’, tutto quello che sta dietro di me. Da mia moglie a mio fratello Paolo, passando per tutti i collaboratori e i dipendenti. Io mi prendo gli onori, ma voglio condividerli con loro».

Intanto questa onorificenza l’ha costretta a uscire dall’ombra.
«Diciamo che mio fratello è la luce, io l’ombra. Paolo è un politico nato, è bravissimo. Sa parlare in pubblico, sa muoversi, ha dato vita a Confimi, è un combattivo. Io sono più introverso».

Infatti qualcuno la descrive come un grande “uomo-macchina”. Si ritrova inquesta definizione?
«Non molto. Tutte le cose che ho fatto le ho ragionate. Anche e soprattutto insieme a Paolo. Ci vediamo poco, ma basta una telefonata, un messaggino per decidere insieme».

Tra voi Agnelli, Paolo è più noto. Però è lei ad aver ricevuto l’onorificenza. Come ha reagito suo fratello?
«Era davvero felicissimo. Ha detto cose bellissime».

Cioè?
«Che sono state premiate la mia umiltà e la mia tenacia».

Cos’è per lei l’umiltà?
«È saper stare al proprio posto, essere consapevoli della propria dimensione. Significa ascoltare, sempre. Mia madre Maria mi diceva che bisogna parlare poco e ascoltare tanto».

Lei incarna alla perfezione questo credo.
«Io a ogni riunione ascolto, poi alla fine dico la mia. E mi fanno proprio incazzare, mi passi il termine, quelli che per farsi belli vogliono dire a tutti i costi la banalità, la stupidaggine che fa perdere solo tempo».

Insomma, non è uomo di convegni.
«No, per niente. Però sono uno che va volentieri ai convegni, semplicemente preferisco stare tra il pubblico piuttosto che sul palco. Anche perché a me piacciono tantissimo le persone che ne sanno più di me. Mi conquistano, con il loro sapere. Io ho studiato poco. Sono ragioniere, ma dopo scuola già andavo a lavorare. Ho imparato più a muovere le mani che la cultura».

Oggi direbbero che è un uomo del fare.
«Diciamo così».

 

 

E infatti entrò giovanissimo in azienda.
«Mio padre permise a me e mio fratello di prendere delle decisioni. Non ci metteva mai il bastone fra le ruote, ci lasciava fare. Il suo motto era: “Bràe, ’sti atèncc”. Ci ha lasciato anche sbagliare».

Lei ha fatto lo stesso con suo figlio?
«Quando Angelo è entrato in azienda, ho deciso di farlo andare con le proprie gambe. Ma lui ci ha portati dal semiautomatismo alla robotizzazione».

È di suo figlio anche l’idea di aprire un ristorante?
«Sì, è di Angelo. Avevamo bisogno di nuovi spazi per la Agnelli Metalli e proprio lì a fianco si era liberato un magazzino. Lo abbiamo preso, ma è molto grande. Allora dietro lasciamo gli spazi per il capannone, mentre davanti portiamo lo showroom che adesso è qua ma è un po’ nascosto e al piano superiore tentiamo questa sfida del ristorante».

Ha dedicato l’onorificenza ricevuta a suo padre. Perché a lui e non a suo nonno che ha fondato l’azienda?
«Mio nonno è morto nel ’57. Avevo dieci anni e mi definiva il bastone della sua vecchiaia. Si appoggiava a me e mi diceva: “Portami a vedere la stazione”. Mio padre invece è colui che mi ha insegnato cos’è il mondo, come si lavora, cos’è il rispetto delle persone».

Che tipo era?
«Uno che non si vedeva mai in giro. La domenica andava al cimitero, una volta al mese dal parrucchiere e poi solo lavoro. Per descriverglielo meglio le racconto un aneddoto. Ero un ragazzotto e c’era un piccolo cliente, un commerciante di Torre Boldone, che immancabilmente, tutti i lunedì, arrivava a cinque a mezzogiorno. Arrivava e ti teneva lì mezz’ora. Una volta mi sono arrabbiato e sono stato maleducato con lui. Mio padre allora mi prese da parte e mi disse: “Così non va. Tu devi trattare lui allo stesso modo in cui tratti i grandi clienti. Perché tutti e due ti danno da mangiare”. Ecco, lui aveva quel rispetto lì, per tutti».

Quindi il cliente ha sempre ragione?
«Non ha sempre ragione, però spesso bisogna mordersi la lingua, dargli il contentino e poi fare comunque come meglio si crede» (ride, ndr).

Ma è vero che lei conosce tutti i suoi dipendenti?
«Be’, tutti no. Ma quelli che sono qui alla Baldassare Agnelli sì».

E quanti sono?
«Una settantina».

Che rapporto ha con loro?
«Ogni mattina li passo a salutare. Un abbraccio, due parole sull’Atalanta, un complimento. Cerco di mantenere un buon clima, e intanto guardo se i lavori procedono come previsto. Loro sanno che quando hanno bisogno possono venire a parlarmi tranquillamente».

E quando succede, lei che fa?
«Li ascolto. E poi, quando posso, li aiuto».

 

 

Più che un imprenditore, è un padre.
«In un certo senso sì. Sono contento anche quando vengono a chiedermi magari un anticipo per una spesa imprevista o un aiuto».

E dice sempre di sì?
«Ma sì. Sono cifre che a me non cambiano la vita, perché sono fortunato, ma che per loro vogliono dire tanto».

Il suo rapporto con i soldi si è visto anche in un altro campo: l’editoria. Ce ne avete messi nel Giornale di Bergamo, eh?
«Madonna, quanti!» (ride, ndr).

Ne è valsa la pena?
«Quell’esperienza ci ha aperto un mondo che non ci è piaciuto. Perché voi giornalisti, scusi se glielo dico, siete una brutta specie. In dieci anni da editore ho visto robe che non avevo mai visto in decenni da imprenditore. Se devo scegliere se salvare i giornalisti o gli operai, non ho dubbi: tutta la vita i secondi. Però mi rimangono bei ricordi e belle amicizie. Ci siamo anche divertiti».

Perché lo avete fatto?
«Perché teniamo a Bergamo e volevamo provare a offrire un’informazione diversa. Quando ci proposero questa sfida, pensammo che sarebbe stato bello provarci. Non ci siamo riusciti, ma ci abbiamo provato».

Quanto vi è costata questa avventura?
«Facendo due conti, direi nove milioni di euro in dieci anni. Però, quando ce lo facevano notare, rispondevamo sempre: c’è chi li butta in una barca, noi preferiamo avere un giornale» (ride, ndr).

Il titolo di Cavaliere del Lavoro ripaga, in parte, questi sforzi? Si è commosso quando lo ha saputo?
«Ero molto felice. La cosa che mi ha fatto venire giù due lacrimuccie, piuttosto, è quando mi ha telefonato un mio vecchio direttore per farmi i complimenti. E piangeva. Quando senti una persona con cui hai condiviso tante battaglie e un pezzo di vita che piange di gioia per te, be’, è una cosa che ti tocca. Quello sì che mi ha commosso».

E sua moglie cosa le ha detto?
«Che è orgogliosa di me. In parte ha visto riconosciuta anche la sua pazienza…».

È stato spesso assente?
«Uscivo alle 7 di casa e fino alle 20, 20.30 almeno stavo qua in azienda. Il sabato poi lavoravo fino alle 12».

Tutta la vita così?
«No, da ragazzo lavoravo anche il sabato pomeriggio e, a volte, la domenica mattina».

Avete festeggiato almeno?
«Diciamo di sì. Per i settant’anni mi hanno regalato una crociera. Con mia moglie abbiamo deciso di partire a inizio giugno di quest’anno. Combinazione, siamo partiti uno o due giorni dopo aver ricevuto la notizia. Ce la siamo goduta, mia moglie se lo meritava».

 

 

Sua moglie è il segreto della sua serenità?
«Sì, assolutamente».

Qual è, invece, il segreto del successo dell’azienda?
«Non credo ci sia un segreto. Siamo stati appassionati, umili e tenaci, questo sì. Mio padre diceva sempre che mangiando le briciole dei giganti si vive benissimo. È inutile mettersi a fare a gara con loro quando non si hanno le stesse forze».

Però ci sarà un elemento che vale più di un altro.
«Se devo scegliere un valore, scelgo l’affidabilità. I nostri clienti sanno che di noi si possono fidare. Poi si lamentano comunque, ma è giusto così».

Di cosa si lamentano?
«Principalmente dei prezzi. Mi è sempre piaciuto andare a trovare i nostri clienti, ma da un po’ avevo smesso perché ogni volta mi chiedevano qualcosina in più. Adesso, da un annetto, ho ripreso».

Cos’è cambiato?
«Un nostro piccolo cliente del Sud, l’anno scorso, mi ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere. Si parlava del fatto che ormai i cinesi copiano tutto. E lui mi fa: “Potranno anche copiarle le padelle, ma nessuno potrà mai copiare la sua faccia”. Da allora ho ricominciato a girare, per far vedere la mia faccia. Solo che vado con un rappresentante, così di affari parlano con lui» (ride, ndr).

Le vostre pentole sono le più belle al mondo?
«Non lo so. Non credo. Ma sono fatte con il cuore, quindi sono bellissime».

Qual è la sua pentola preferita? Quella d’oro?
(Ride, ndr) «No, quella piace a mio fratello. Ma per me resta una pentola di rame rivestita d’oro. Vuole mettere con quella in alluminio extra puro?».

Certo che lei e suo fratello siete agli antipodi. Avete mai litigato?
«Mai. Anzi, sì, una sola volta. Eravamo bambini e Santa Lucia mi aveva portato il fucile a piombini. Tempo zero, e Paolo me lo ruppe. Poi siamo sempre andati d’accordo».

Siete anche due uomini di sport. Siete ancora azionisti dell’Atalanta?
«Sì, ma contiamo poco. Entrammo per aiutare Ruggeri. Che era un testardo, ma anche un grande amico. Con Percassi il rapporto è più freddo».

Va ancora all’Atalanta?
«No, soffro troppo. Anche se a volte mi manca un po’ lo stadio».

Leggenda narra che la borraccia che Coppi passò a Bartali nello storico Tour de France del 1952 fosse firmata Agnelli. È vero?
«Sì, è vero. Qui in azienda abbiamo ancora il portaborracce, purtroppo la borraccia no invece».

Poi c’è l’Olimpia Pallavolo. Cosa c’entrate con la pallavolo?
«La nostra famiglia è di Borgo Palazzo e lì c’è l’Olimpia Oratorio, che è sempre stata la mia seconda casa. In azienda lavorava un certo Ettore Bernasconi, che seguiva la squadra di calcio dell’Olimpia e ci chiese un aiuto. Così decidemmo di sponsorizzarla. Da cosa nasce cosa e alla fine la squadra è diventata l’Olimpia Agnelli: ancora oggi supportiamo cinquecento ragazzi. Intanto però cresceva molto bene anche la pallavolo maschile. E non era giusto che i ragazzi che praticavano il calcio avessero tutto e quelli della pallavolo niente, così decidemmo di costituire una società sportiva. Oggi i rapporti si sono invertiti: la pallavolo va alla grande e siamo arrivati in Serie A2».

L’impressione è che, più dello sport in sé, a lei piaccia far crescere i giovani.
«A me piace l’oratorio, mi piace poter essere parte di una realtà che trasmette valori sani ai ragazzi».

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