Un bergamasco al Museo del '900 (che amava Venezia e la Presolana)

Il bergamasco Angiolo Alebardi è ora uno degli artisti del Museo del Novecento di Milano. La Deposizione (97x106 cm), dipinta a tecnica mista su tavola nel 1945, è stata scelta e accettata dalla Commissione esaminatrice del Museo e donata dalla famiglia dell’artista nel giugno 2014. Non è scontato che donazioni vengano accolte nello sterminato patrimonio di collezioni e depositi museali italiani. Lo stesso Museo del Novecento conserva circa duemila opere di pittura, scultura, grafica e ne espone quattrocento; dal 2012 ha ricevuto 753 opere, 27 plaquettes, 349 volumi destinati all’archivio.
Tutto è nato da Sgarbi. L’idea è nata da Vittorio Sgarbi, per cui «Alebardi è un artista certamente originale e ha una chiave simbolista che alla fine restituisce alla sua opera una spiritualità e un’intensità che non sono legate a una mera riproduzione». Per lo storico dell’arte donare un’opera al museo «è un modo per legittimare Alebardi nell’istituzione», anche se tanto del patrimonio artistico è conservato in deposito: «Il problema dipende dalla quantità degli artisti dell’Otto-Novecento e dalla possibilità di accendere fari su di loro. Credo che Alebardi meriti attenzione, che un luogo e uno sponsor privato decidano di celebrarlo, con chi ha interesse a farlo. Non lo fa spontaneamente un’istituzione pubblica, che può curare un catalogo delle opere, anche di quelle in deposito. L’iniziativa può venire da privati, mercanti, eredi».
Angiolo Alebardi, Deposizione
L'opera in questione. La scelta dell’opera privilegia il volto più intimo e meno indagato di Alebardi (Seriate, 1883 - Bergamo, 1969), in cui la ricerca pittorica non deve conciliarsi con il riconoscibile e “piacevole” ricercati dall’ampia committenza. Rare sono le sue commissioni d’arte sacra, «personali» e fortemente «espressivi» i disegni, acquerelli e dipinti sacri, come documenta il critico Marco Lorandi, che ha curato l’introvabile archivio dell’artista e l’antologica con monografia del 1984. Il tema, a cui sono dedicati bozzetti tra il 1945 e il ’50, è risolto in un compianto sul Cristo deposto, «nei toni quasi monocromi di marroni bruciati, verdi spenti, rossicci e neri». A Lorandi sembra che «il gruppo sia stato prima delineato da forti spezzettature di linee nere, “drammatiche”, e poi ricoperto da una “coltre” di colore spento, “corruscato”, che ha travalicato lo stesso schema compositivo». Gli appaiono chiare la datazione tarda dell’opera e la citazione colta della scuola veneta del Cinquecento, da Tintoretto, Veronese e Pordenone alla Bibbia rusticana di Jacopo Bassano.
La Presolana di Alebardi
Le città "modelle" e la Presolana. L’altro Alebardi intanto continua ad aprire inconfondibili vedute in gallerie e collezioni private, ai molti che conoscono tanto o poco della sua opera. Il pittore si riconosce dalle sue “modelle”, contese da più artisti bergamaschi: l’amata Venezia, così diversa da quella accesa, carica, materica del coevo Ermenegildo Agazzi, e il familiare paesaggio di valli e laghi orobici. La Presolana è, a detta dell’artista, la sua «morosa», la musa di tanti rendez-vous en plein air al cavalletto sin dal soggiorno in Val di Scalve del 1920 e dalle visite a Tosi sfollato a Rovetta durante la Seconda Guerra; il suo profilo naturale si leva di primo mattino a toccare il bagliore di nuvole nell’immensità dell’azzurro e posa instancabile alle luci del giorno: pietra tersa come aria, screziata di colori, incastonata su tavola da fugaci pennellate. «Che cieli rannuvolati - racconta Alebardi al critico Bardi nel 1926 - È impossibile fermarli nel quadro. E le rocce? Sembra che traggano da invisibili guardaroba le più svariate qualità di manti con cui si agghindano le Prealpi orobiche».
Veduta di Venezia di Alebardi
L'amata Venezia. La città lagunare è la prediletta dell’artista sin dai felici esordi alla VII e IX Biennale e dal viaggio di nozze nel 1909: si staglia sospesa tra profonde distese d’azzurro, diluisce tono su tono sobrie vesti di colore tenue, evapora ariosa in moli, gondole e vele, cupole, colonne e campanili. Una Venezia che si specchia tra acqua e cielo accattivante e nervosa come un capriccio di Francesco Guardi e - senza cedere alla malinconia dell’ultimo cantore settecentesco della Repubblica serenissima - s’aggira ancora tra le quinte di piazza San Marco, la colonna del Leone e la chiesa della Salute, osserva commossa e divertita le stesse commedie dell’arte e della vita tra pescatori, damine e macchiette intabarrate, talora canta luminosa con netti chiaroscuri e pochi marcati segni, talora confonde con la sua bellezza mobile, fumosa, umbratile. Di veduta in veduta le atmosfere, rese con “colpizar” di pennello spatola pollice, ricorrono dense o rarefatte su scale di grigio, virando in toni di verde o di turchino, con guizzi di nero, ventate d’ocra, schiarite di rosa, «grumi di biacca e sferzate di blu».
Piazza San Marco di Alebardi
Un vero che non sia vero. «Guardare il vero, fare il vero, ma che non sia il vero». Lo spiega lo stesso Alebardi, in un’intervista a L’Eco di Bergamo del 1967: «Basterebbe un piccolo passo ancora e la realtà scomparirebbe. Sarei anch’io nell’astratto. Ma perché lo dovrei fare? Rinunciare alla realtà è rinunciare alla vita, alla poesia. Fossi matto. La realtà è bella, non tanto in se stessa, quanto per la trasfigurazione che l’artista le sa dare, per il sentimento che ci mette dentro; allora anche le cose hanno un’anima e un linguaggio e diventano simboli, come il riflesso e la testimonianza di quanto c’è in noi. Un artista che dentro non ha niente di bello da esprimere non sarà mai un artista. L’intelligenza, la fantasia, la tecnica non bastano. Cuore, poesia, sentimento, ecco quel che ci vuole. E amore per la natura, che è fonte inesauribile per l’arte che vuol sopravvivere alle mode di una stagione » .