L'intervista

Bruno Vaerini, l’artista (e architetto) che ha portato un po' di Rinascimento a Bergamo

Suo è il trittico di Piero della Francesca alla Malpensata, suo L’Oculum Angelorum nella Corsarola. «Le mie opere sono una preghiera»

Bruno Vaerini, l’artista (e architetto) che ha portato un po' di Rinascimento a Bergamo
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di Bruno Silini

Per Marco Belpoliti, scrittore, editorialista di Repubblica e docente all’Università di Bergamo, ci sono due Bruno Vaerini. Il primo è «un artista innamorato della forma e del colore» e il secondo «un architetto rigoroso, paziente, determinato, inflessibile e inamovibile che pensa lo spazio come un luogo di estensioni e intenzioni».

Abbiamo incontrato Vaerini a colazione un sabato mattina al suo bar preferito: la Caffetteria da Vittorio alla Malpensata.

Dove nasce il suo primo incontro con l'arte?

«Da giovane ho frequentato la Scuola d’Arte Fantoni e successivamente l’Accademia Carrara. Sono stato per un lungo periodo a Roma, dove ho studiato scultura con diversi artisti all’Accademia delle Belle Arti, tra i quali Pericle Fazzini. Successivamente, anche per mantenermi, ho iniziato a fare scenografia in teatro con la compagnia di Paolo Poli. Ho partecipato a un film con Pasquale Festa Campanile e ho perfino danzato negli spettacoli di Rita Pavone. Per arrotondare andavo da un architetto. Allora non c’era il computer, si lavorava a mano libera. Da lui ho portato la visione artistica nell’architettura. È stata una svolta importante. Devo dire grazie a chi ha creduto in me, nel mio percorso in un mondo dell’arte tutt’altro che facile. Anzi, decisamente complesso».

Quanto ha inciso questa città nel suo sguardo artistico?

«A Bergamo ho avuto dei professori bravissimi. Penso a Elia Ajolfi e a Orfeo Locatelli. Da loro ho imparato che, nel nostro lavoro, se non si hanno delle solide basi culturali e storiche, si è artisti a metà. Locatelli, soprattutto, mi affascinava con le sue spiegazioni del celeberrimo ciclo di affreschi di Masaccio e Masolino, i fondatori della pittura rinascimentale italiana. Ero in una condizione di meraviglia e stupore che ancora oggi, mio malgrado o per fortuna, mi porto appresso».

Quando ha capito che l’arte e l’architettura sarebbero state la sua strada?

«Le cose capitano così, non le devi programmare. Basta assecondare la curiosità di andare oltre quello che conosci. Senza curiosità non c’è visione. Se devo dirla tutta, il progetto della mia vita si basa sul fatto di non averla progettata, ma di aver sempre cercato un atto d’amore paterno volto a dare rilievo materiale alle cose interiori. Mi è sempre difficile presentarmi in termini formali, proprio perché il mio approccio alla progettazione artistica e architettonica è quantomeno trasversale rispetto ai canoni convenzionali».

Ha lavorato anche alla Ferrari.

«Anche qui tutto nacque per caso. Conobbi Flavio Manzoni (attuale Chief Design Officer della casa modenese, ndr) in una conferenza a Milano e mi invitò per diversi incontri proprio a Maranello. Fu un’esperienza (...)

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