«La felicità è fatta di cose ridicole»

Andrea Camilleri parlava spesso e volentieri della felicità. Cosa del tutto insolita per uno scrittore. Gli scrittori come gli intellettuali hanno la vocazione a problematizzare, anche per crearsi un terreno privilegiato ed esclusivo nel quale agire. Camilleri non era così. Era diverso. Era semplice e forse per questo è stato tanto amato dai suoi lettori. Per Camilleri la felicità era la cosa più importante della vita. E quindi non si vergognava certo né di parlarne, né di confessare di averla desiderata e sperimentata. Non era per lui una categoria filosofica, non era racconti figli di ragionamenti. La felicità per lui non era mai associata a grandi pensieri. «La felicità», aveva scritto una volta, «per me non ha motivazioni, non ne ha mai avute, per me è fatta di cose ridicole». È grazie a questo sottile e ironico distacco che a Camilleri è riuscito di essere felice nel momento in cui ha perso, da vecchio, la cosa più preziosa per uno scrittore: la vista. Avrebbe potuto essere prigioniero della malinconia; avrebbe potuto chiudersi nel rancore o nella rivendicazione nei confronti della vita, invece si era trovato a confessare che, non vedendo, capiva e apprezzava meglio la sostanza delle cose.
Da non vedente, in fondo, non gli era preclusa quella forma semplice di felicità che tante volte aveva raccontato: «La felicità per me era aprire la finestra al mattino, sentire l’aria fresca, guardare fuori. Alzarsi presto, aspettare che tutta la casa prendesse vita, sapere che dopo un po’ si sarebbero alzate le persone a me più care e che presto ci sarebbero state le loro voci intorno a me». Bellissimo outing di uno scrittore che il successo non ha reso superuomo e che continua a guardare alla sostanza della vita, come sequenza di momenti semplici e del tutto normali. Poi, certo, in quella frase usava il tempo imperfetto, perché ora la cecità rendeva impossibile quell’esperienza mattutina. Ma era una presa d’atto dolorosa che non inficiava per nulla la verità di quella felicità tante volte sperimentata davanti alla finestra («Quando ora tento, con sforzo, di girare la manovella del mio corpo e quando lui risponde a dovere, provo di nuovo un sentimento leggero di felicità»).
Quando gli chiedevano se lo scrivere e il pubblicare un libro fosse una forma di felicità, lui smentiva. E spiegava con precisione che semmai era qualcosa che provocava gioia e commozione («In fondo scrivere un libro è liberarti di una parte di te stesso, è una soddisfazione, un piacere. Avere tutti questi lettori mi commuove, mi fa vivere»). Ma la felicità, spiegava, era qualcosa di più grande per quanto semplice. «Io sono stato felice per pochi attimi e per cose inspiegabili», diceva. «Una volta quando in campagna mi entrò la citronella nelle narici, nei polmoni e mi venne voglia di cantare ad alta voce e sentii il mio essere in armonia con l’universo, con il grandissimo nulla dentro cui fui felice di perdermi».
C’era in Camilleri anche uno struggimento: quello di non credere in una felicità che durasse oltre questa vita: «La felicità non è di questo mondo, è di un altro mondo da cui sono escluso perché non credo. È qualcosa che trascende noi stessi». Ora che è in un altro mondo, forse, Andrea Camilleri è stato smentito. Se così fosse, ne saremmo tutti molto felici...