Che cos'altro abbiamo (una carezza a tutti quei morti)

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Ce n’è uno della vecchia scuola che prende su la macchina e va in redazione, perché quando succede qualcosa del genere è così che si fa, da sempre: ci si muove fisicamente, si raggiunge quello che è il cuore del lavoro di chi fa informazione. Fa niente se internet, la tecnologia, fa niente. Il gesto è quello – umano e prezioso – del dare dignità alla tragedia, dell’andare lì, in posizione. Quello che sceglie, tra foto di poliziotti in tenuta anti-sommossa e cadaveri coperti da veli bianchi, l’unica immagine fatta da uno sguardo e da un abbraccio. Che è una goccia di grazia, che è un modo di dire: «Restiamo umani». Proviamoci.

Poi ci son gli altri, quelli che 50 anni in due, quelli che le notizie su Twitter, i video da Vine, le testimonianze del giornalismo partecipativo digitale. Del pc sulle ginocchia in camera propria per non svegliare gli altri in casa, ma l’angoscia è la stessa, la paura è la stessa, mentre i messaggi su Facebook agli amici là, in vacanza o per lavoro sui boulevard parigini, scottano sotto le dita. Quelli che è sempre tutto veloce, ma stavolta sono più veloci i conteggi delle vittime che salgono, le notizie che scappano e non si capisce proprio bene, e non si capisce più niente.

Il primo è stato mio padre in pigiama davanti alla tv, comunque, che è uscito incredulo dal letto per dire: «Uè, giornalista, spegni lì, a Parigi decine di morti e cento ostaggi». Spegni il reality, la realtà è tremenda. «Giornalista» è ironico perché io non lo sono ma comunque il concetto è lì attorno e allora ok. La cura e la semplicità con cui arriva la notizia no, quelle no, sono vere. Martin Amis attacca il suo romanzo L’informazione così: «Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono “Niente. Non è niente”». Non era niente. E, se fosse stato solo nel sonno, avremmo pianto volentieri.

Non si può ragionare, davanti ai morti, in realtà. Non si può pontificare di soluzioni politico-social-religiose. Non si può proprio dire niente. Almeno, io non posso. Manco si riesce a piangere, finché non si scrive. Si sente quel freddo dietro le orecchie che irrigidisce il collo e non si fa altro che tentare di rispondere alla domanda delle domande: «Perché?». «Perché la guerra?» è una domanda inutile, ovviamente. Sarebbe come a dire «Perché l’uomo?». E lasciamo stare dio.

Quindi, che fare. Stringersi. Pregare, forse. Ma stringersi, meglio. Dire oggi l’affetto, usare oggi la cura. Oggi, non domani. Tirar su il telefono, ricordare i legami, ravvivarli. Cullare oggi, come possiamo, per quanto possiamo, quelli che amiamo. Abbracciare davvero quelli che ci danno un senso d’esistere. Perché il senso è appartenere a. Restare umani. Stringersi. Che altro abbiamo. Che altro siamo.

Voglio credere che anche loro abbiano pensato a qualcuno che amavano, nell’ultimo istante, voglio sperare che ce l’avessero. Per andarsene con quegli occhi lì, davanti, con quel viso lì ad accarezzarli. Almeno questo.

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