Cinque imprese "impossibili" per raccontare chi è Simone Moro
Per gli sherpa che scarpinano su e giù dai fianchi delle montagne dell’Himalaya, il Nanga Parbat ha un nome eloquente: il “mangiauomini”, a volte preferito a “la montagna del diavolo”. Di bene in meglio insomma, per definire una cima che tra tutti gli Ottomila ha un indice di mortalità secondo soltanto all’Annapurna: il 28%, in pratica 1 alpinista su 4 che ci prova non torna. Sono dettagli che danno ulteriore colore all’impresa di Simone Moro, il 49enne bergamasco che ieri, assieme a due compagni di spedizione (Txicon e Sadpara), è riuscito per primo ad arrivare in vetta a quella cima maledetta con una spedizione invernale. Quello di Simone, ieri, è stato l’ultimo passo di una vita trascorsa tra montagne, pareti e altitudini, il frutto di una passione sorta tra le cime della bergamasca, coltivata poi sulle Dolomiti e messa all’opera sulle alture di tutto il mondo. Una costante sfida alla forza di gravità che si può racchiudere in 5 imprese, ognuna a suo modo speciale.
Nanga Parbat
Si parte dalla fine, dall’ultimo Ottomila tentato in periodo invernale. Un’impresa ottenuta, nell’ultimo giorno, con 10 ore di cammino dal campo 4 per arrivare a quota 8126. Per capire cosa si provi a scalare d’inverno a quella altezza, occorre pensare ai venti, che possono soffiare anche a 100 km/h, con temperature che calano fino a -40 gradi. Ci aveva già provato due volte Simone Moro, trovandosi sempre costretto, però, a un certo punto a fermarsi. Eppure, di quei fallimenti non si è mai vergognato, anzi. «Se non avessi rinunciato, probabilmente sarei morto. Mancavano mille metri, Denis Urubko mi disse “saliamo” e io risposi “no, scendiamo perché verrà brutto”. Fu così: neve, valanghe e tempo bruttissimo. Non saremmo più scesi. La paura mi ha salvato», ha raccontato qualche mese fa a Filippo Facci, per il Post.
L’alpinismo invernale
[Un precedente tentativo al Nanga Parbat, col tedesco Goettler]
Ha riaperto una strada Simone Moro, una dimensione per vivere l’alpinismo diversa, ancora più estrema e difficile. Negli anni Ottanta l’assalto agli Ottomila durante i mesi più rigidi era una prerogativa dei polacchi: Wielicki era il più famoso e salì tre cime (Everest in primis), con lui si ricordano anche Cichy, Kukuczka, Berbeka… Moro ha ripreso negli anni Duemila questa attività, arrivando, prima del Nanga Parbat, sul Shisha Pangma (8027), Makalu (8463) e Gasher-brum II (8035). Con la quarta vetta raggiunta ieri è l’unico al mondo ad aver fatto tanti Ottomila nel periodo invernale.
Il K2
È l’unico Ottomila che resta da scalare in inverno. Ci provò una spedizione polacca nel 2002: Piotr Morawski e il kazako Urubko arrivarono a stabilire un campo IV fino a quota 7630, il punto più alto della montagna mai raggiunto in quella stagione. Tuttavia il maltempo costrinse gli alpinisti a tornare indietro. Da allora nessuno è più riuscito a spingersi tanto in alto. Ma per Moro la seconda montagna himalayana per altezza è qualcosa quasi di intoccabile: «Quella non la faccio. Forse avrei più probabilità di riuscirci oggi, non è questo: non la tenterò per una promessa che ho fatto a mia moglie. Un giorno ha presagito che ci lasciavo le bucce mentre lo scalavo. Non mi ha mai chiesto nulla, non si è mai lamentata: ma il K2 mi ha chiesto di lasciarlo perdere», raccontava sempre a Filippo Facci. Restare fedele alla parola data alla moglie, rinunciando alla possibilità di un nuovo record, è anche quella un'impresa.
Il salvataggio di Tom Moores
È il 2001 e Simone Moro tenta il concatenamento di Lhotse e Everest, assieme al kazako Denis Urubko. Si trovavano in una tenda a ottomila metri, la notte prima di attaccare la cima del Lhotse, quando Moro riceve una richiesta di soccorso da Tom Moores, scalatore inglese caduto dalla parete della montagna. Il resto è meglio farlo raccontare dallo stesso Moro: «Non sopportavo l'idea di lasciare morire una persona senza nemmeno fare un tentativo, anche inutile, di salvargli la vita. Allora ho detto a Denis di tenermi d'occhio che sarei andato a cercare di recuperarlo. Quando l'ho raggiunto ho capito subito che salvarlo sarebbe stato una brutta faccenda. Era in un posto pericolosissimo per le valanghe, senza guanti, senza pila e cosa ancor più grave senza ramponi. Mi ha detto di andarmene e di lasciarlo li a morire. In dialetto bergamasco gli ho risposto che con tutta la fatica che avevo fatto per arrivare fino a lì, me lo sarei portato via anche in groppa. E così ho fatto. Era senza ramponi e messo male, per cui non c'era a altra alternativa che caricarselo in spalla e trascinarlo. Senza ossigeno l'ho riportato alla mia tenda, salendo per circa duecento metri di dislivello prima di rientrare alla mia tenda per evitare un tratto troppo pericoloso per le valanghe. È stato uno sforzo tremendo». Il giorno dopo Moro inizia la scalata, ma dopo poco desiste: troppa la stanchezza accumulata la notte per salvare l’inglese. Dice al compagno di proseguire da solo. Urubko arriverà in cima al Lhotse, ma poi eviterà la scalata all’Everest: «Siamo un team, riproveremo insieme», dirà a Moro. Particolare: al ritorno in Italia Moro non dirà nulla di questo salvataggio, che verrà reso pubblico soltanto da Moores.
L’elicottero
Simone Moro è diventato pilota abbastanza di recente, nel 2009. Ma pure in questo campo inanella un record dietro l’altro, sfidando montagne e altitudini. Nel maggio 2012, ad esempio, ha effettuato (insieme al pilota Piergiorgio Rosati) un recupero in long line (con corda calata dal velivolo) sul Tengkangpoche, una cima di 6487 metri. L’anno dopo, con Maurizio Folini e Armin Senoner è arrivato addirittura a 7000. «L’elicottero è un inno alla libertà. Sei libero dal vincolo degli aeroporti, di poterti fermare in aria e aspettare che le nubi si diradino», raccontava nel 2014 in un’intervista. Moro ha fondato una scuola di piloti in California, e poi si è specializzato in particolare nei salvataggi alpini nel Nepal, zone dove è difficilissimo operare con un elicottero. «Sono partito dal sogno di diventare pilota di elicottero e di dare vita a una sorta di Elisoccorso tra le montagne che meglio conosco, quelle del’Himalaya. Sono vette dove l’ala rotante è praticamente impossibilitata a operare, una scelta folle. Ancora più folle sarebbe stata, in seguito, la mia decisione di comprare un elicottero per queste missioni, nonostante lo scetticismo generale degli addetti ai lavori. Ma sono sempre andato avanti per la mia strada e nel 2009 sono diventato pilota. Quattro anni dopo ho portato in Nepal l'elicottero e per la prima volta nella storia un mezzo immatricolato in Italia volava in Himalaya con un equipaggio interamente italiano». Il velivolo, per altro, nel giugno 2013 è rimasto coinvolto in un’incidente, distruggendosi: il pilota è svenuto mentre era in volo, e l’elicottero è precipitato con a bordo quattro persone.