Come ho incontrato Pino Daniele e perché penso che sia un genio

Volevo dire come ho incontrato Pino Daniele e perché è un genio. Anni fa (tanti, più di mezzo secolo fa) affacciato al finestrino di una carrozza di seconda classe aspettavo che il treno partisse.
Napoli Centrale. Più o meno mezzogiorno. Sul marciapiede una ragazza stava parlando con qualcuno dello scompartimento accanto al mio. Un sorriso - adesso posso confermarlo - indimenticabile: triste e gioioso insieme. Triste di dover lasciare qualcuno, lieta di essere lei a salutarlo. Magrissima da tisi incipiente, rossa con le efelidi, una vestina di quelle che si cuciono in casa, col fiocco sul fianco per chiuderla e se si apre che c’è? che c’hai da guardare? un bambino in braccio, appoggiato sul fianco. Avrà avuto sì e no tre mesi. Lei parlava in quel suo sorriso da quartieri spagnoli, letti sfatti, vite così.
Era fine estate. Avrei voluto avere una canzone, o una musica da cantarmi dentro, per rendere perfetta quella scena. Ma c’era la calura sporca di Napoli, sotto le tettoie. Tutta la mattina era stata così l’aria, come spesso a Napoli. Sporca. Luminosa, ma difficilmente nitida.
Non ce l’avevo, la canzone da cantarmi. Le classiche - ‘O sole mio, Torna a Surriento, Chist'è 'o paese d' 'o sole, Oi Marì - si portavano dietro voci troppo potenti: Caruso, Del Monaco, altri. Roberto Murolo, nonostante fossi cresciuto a pane e Scalinatella, spaghetti e Guapparia, non s’intonava col tempo. Un’altra Napoli la sua. Forse Strada ‘nfosa. Ma non pioveva, non c’erano pozze in giro. Niente: il treno si è mosso. Ero fortunato perché l’altro era nello scompartimento verso la motrice, e io le sono sfilato davanti piano piano, mentre lei lo seguiva con gli occhi.
Anni dopo (facciamo venti, venticinque?). Un campeggio in Camargue. Un ragazzo e una ragazza tedesca ci chiedono se potevamo dar loro qualcosa da mangiare perché gli avevano rubato in tenda. Li abbiamo invitati a cena. Vivevano in un posto di quelli come ce ne sono tanti - tutti uguali - nella campagna attorno a Stoccarda. Non avevano riscaldamento in casa, che però non era una vera casa ma un sottotetto attrezzato. Impiegati entrambi, lui suonava in un complessino. Sarebbero partiti l’indomani e noi - tutta la famiglia - abbiamo pensato che non avessero subito alcun furto. Cosa suonava, lui? musica d’oggi. C’era un italiano che gli piacesse? Pino Daniele. A colpo sicuro. Pino Daniele. Stupendo, meraviglioso, insuperabile.
Pino Daniele: chi era costui? Perché è così, nella vita. Che la musica si segue fino a quando ci si sposa. Poi c’è un periodo di una decina d’anni in cui i figli si prendono tutta l’attenzione. Poi si ricomincia. Ero nella decina sorda. Tornato in Italia, però, m’informai subito.
Napule è: voce de’ creature, nu sole amaro, ‘na carta sporca e una ragazza che aspetta ‘a ciorta sua, quel che verrà verrà. Era la canzone di quel giorno a Napoli Centrale. Lei e solo lei.
Un musicista - un artista in genere - è grande quando trasforma il paesaggio attorno a sé. Non si sa - nessuno sa - come succeda questa cosa. Pasternak diceva che succede perché qualcuno, senza che sia possibile prevederlo, a un certo punto diventa il punto d’appoggio che consente alla musica, alla poesia, alla pittura di esprimersi. Diventa la voce di quel paesaggio lì, di quel mondo lì. E gli altri lo riconoscono. Andava alle elementari, probabilmente, Pino Daniele mentre il finestrino si allontanava dalla ragazza coi capelli rossi. Ma lei era lì in attesa del suo canto. Tutta Napoli lo attendeva.