il 3 avrebbe compiuto 80 anni

Cosa ci manca di Jannacci

Cosa ci manca di Jannacci
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Alla fine venne anche il pezzo sul Corriere in cui diceva: «In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l’idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza». Enzo Jannacci, il 3 giugno, avrebbe compiuto 80 anni.

“In questi ultimi anni”: però si capiva da sempre che doveva essere una persona buona. Era come se il suo presentarsi in maniera così surreale, di burattino ai limiti dell'improbabile, fosse il mezzo di cui disponeva per esprimere in maniera umile e schiva la pietà che provava verso la sofferenza del mondo. Era chirurgo, e una volta raccontò che aveva capito di dover smettere quel mestiere quando un tale, un poveraccio, avendolo riconosciuto nel risveglio fumoso dell'anestesia, gli domandò preoccupatissimo e in dialetto: «Ehi, cosa sta succedendo? perché mi avete portato in televisione?».

 

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Un'altra volta parlò della moglie. Disse che era stata un'esperienza incredibile il fatto di essersi accorto con stupore, dopo tanti anni di matrimonio, della presenza di quella donna e del bene immenso che gli aveva voluto. Era come se si scusasse ancora, di fronte all'intervistatore, con quella sposa, così fedele da aver aspettato per tanto tempo che lui la riconoscesse.

Un'altra parlò del figlio, pianista del Conservatorio, un tipo bravo, che si preoccupava che il padre rispettasse il tempo e le tonalità. Ossia si dirozzasse un po' rispetto a come era abituato a muoversi con la musica. Disse che era contento di aver qualcuno che lo aiutasse a migliorare. E anche che fosse suo figlio, aggiunse con qualche rossore.

Perché lui, che pure aveva studiato pianoforte - come spesso accade, o accadeva, ai medici - in realtà andava un po' a caso. Lo scrisse anche in una canzone: ci vuole orecchio. Per fare tante cose - l’amore, la musica -, ci vuole orecchio. E non tutti ce l'hanno. Non hanno modo di mettere tutto il pacco nel secchio che, oltre a far rima con “parecchio”, sta in cima a tutti i sogni maschili; non rispettano il tempo quando suonano e così si perdono la base, che continua a girare indipendentemente da loro.

 

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[Gaber e Jannacci (Barbaglia)]

 

Alcuni ricorderanno l'intervista in cui raccontava di come - ancor giovani entrambi - si fossero trovati, lui e Gaber, a suonare una sera a Vigevano. E lì avevano cominciato con le loro canzoni magnificamente strampalate, incapaci com’erano di star sul palco senza assumere posizioni e facce incongrue e, soprattutto, senza tentare soluzioni armoniche al solo scopo di vedere come sarebbe andata a finire, perché così facevano i jazzisti che amavano. Era musica la loro: musica pura. Ma la gente iniziò a mormorare, qualcuno a mostrarsi perfino inferocito, e allora i due rientrarono prontamente nei ranghi nella speranza di riuscire a concludere indenni lo spettacolo, magari con qualche minuto di anticipo e grande dignità.

Certo, trovarsi ad ascoltare live e in prima versione la storia di quello che aveva le scarpe da tennis e voleva andare all'Idroscalo per via di quella ragazza «bianca e rossa / che pareva un tricolore»; o l'altra - dell'Armando che gli si era aperta la portiera ed era caduto -, per gente venuta su ascoltando Tonina Torrielli (la caramellaia di Novi Ligure che invitava ad aprire le finestre al nuovo sole), o Gino Latilla (il poeta del vecchio scarpone ritrovato in soffitta), non doveva essere un colpo da poco. Ma i due proseguirono per la loro strada, tranquilli.

Anche quando iniziò a comparire in televisione, con le sue movenze da marionetta smagata e con gli occhiali, Jannacci non concedeva niente all'audience. Dava solo tutto se stesso: prendere o lasciare. I più lasciavano.

 

 

Così in un altro breve filmato lo si trova serio, quasi doloroso, quando dice di non essere soltanto il tipo strano che tutti si immaginano. Il più bel complimento che gli sia stato fatto, dice, riguarda una sua canzone molto diversa da quelle cui pensano tutti d'acchito. Si chiama, la canzone, Sfiorisci bel fiore («C'è un fiore di campo / che è nato in miniera / …» è l’inizio) e il complimento era che alcuni avevano pensato che si trattasse di una canzone popolare, che lui interpretava soltanto. Invece no, diceva: l'ho scritta proprio io, e sono contento che la gente pensi che sia una canzone popolare, perché vuol dire che la sente più sua che mia. E per me questo è il massimo che uno che scrive canzoni possa sperare.

E cos'altro pensiamo nostro, nelle sue canzoni? Forse il bene che vuole ai suoi personaggi.

A quello, già ricordato, che si lascia scappare davanti al Commissario che il fratello non era semplicemente caduto dalla macchina, ma che ce lo aveva spinto lui. Perché l'altro era come suo fratello, che c'avevano tutto in comune - anche la stessa donna: "la mia", aggiunge dopo una pausa micidiale - e quindi non poteva averlo ucciso. Se l'era solamente tolto dai piedi una volta per tutte.

 

 

All'altro poveraccio che faceva il palo nella banda dell'Ortica solo perché era il suo mestiere, anche se era sordo e sguercio e mentre la polizia arrestava i complici a pugni, calci e botte, «lui era fisso che scrutava nella notte, / ha visto nulla, ma in compens l'ha sentii nient, / perché a vederci non vedeva un'autobotte / però a sentirci ghe sentiva on accident». La rima notte/autobotte vale il «ridenti e fuggitivi» degli occhi di Silvia. Sono entrambi un unicum nella poesia italiana.

All'altro ancora, «vün che l'è mai stà bún de dì de no e che I s'era conossü (lui e la sua donna) visin a la Breda; / lì (lei, però) l'era d' Ruguréd e lü... su no! / Un dì lü l'avea menada a veder la Fiera, / la gh'eva un vestidin color del trasú»; poi lei gli aveva chiesto i soldi per un krapfen e immediatamente dopo l'aveva mollato. E così lui voleva andare a Rogoredo per ricuperare i so dané e camminando cantava "No, non mi lasciare!" come fosse uno straccivendolo, uno strascée. Come doveva esser quel vestidin color del trasú, ovviamente de ciòcc, c'è solo da immaginarselo. Indimenticabile. Bisognerebbe suggerirlo a Dolce e Gabbana.

Ma pensavamo che fosse nostro - o per lo meno avremmo voluto esser capaci di tanta purezza - anche il modo di sentire, prima ancora che di interpretare, certe canzoni.

 

https://youtu.be/WmMcRiwCwmc

 

Mettete a confronto lui e Paolo Conte su Mexico e Nuvole. L'avvocato astigiano - grandissimo - appare ancora in certo modo pensoso, colpito certo dalla vita, ma dotato ancora di una minima interiorità. Jannacci no. Lui sembra uno che si sia appena accorto del fatto che gli amori messicani sono solo provvisori, che i sì che si dicono da quelle parti sono dei sì, ma forse sono anche dei no, e dunque conclude perentorio: «queste son situazioni di contrabbando (una criptocitazione della canzone messicana più famosa al mondo, Cielito lindo) meglio star qui seduto / a guardare il cielo davanti a me». Due canzoni diverse, quelle di Conte e di Jannacci. L’ultima, nella voce e nel ritmo, di un minimalismo così estremo e disperato da far pensare che se Eduardo fosse nato a Milano si sarebbe chiamato Enzo.

Meno nostre, invece, sono le canzoni in cui più visibile è la mano di altri. Quella, ad esempio, del re e del vescovo cui i superiori - il cardinale e l’imperatore - hanno portato via un castello e un’abbazia, del ricco cui i precedenti hanno portato via un caseggiato e infine del contadino che tutti i precedenti uniti avevano contribuito a gettare sul lastrico. Infine quella, un vero tormentone come si dice in gergo, che ripete “no, tu no” a chi pretende di partecipare alle cose più assurde cui si possa desiderare di prendere parte.

 

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Ma certamente ne abbiamo dimenticata più d’una delle sue cose belle. Magari, finito questo pezzo, ci torneranno in mente e diremo a noi stessi: ma com’è possibile che le abbiamo lasciate sulla tastiera?

È che ci dispiace che non ci sia più, il nostro Jannacci. Ci mancano le sue parole, la sua voce, i suoi ritmi e la sua pietà. E quindi scriviamo, ma pensando ad altro. Al fatto che ora, quella carezza di cui si diceva, lui l’avrà già avuta da un pezzo e che noi, quando lo vogliamo, possiamo sempre andare a tirar su i suoi dischi con quelle belle copertine d’un tempo. Sperando di saperli ascoltare pieni di meraviglia, come se non li avessimo ancora mai sentiti nemmeno una volta.

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