Vita e miracoli di un genio della moda

Così Christian Dior creò la donna

Così Christian Dior creò la donna
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Non vi preoccupate se c’è la crisi. Magari poi arriva una bella guerra e diventerete famosi in tutto il mondo e ricchissimi. Come me. Questo Christian Dior non l’ha mai detto, però avrebbe benissimo potuto dirlo ai ragazzi d’oggi. Era infatti nato in una famiglia benestante - industriali di detersivi - il 21 gennaio 1905 a Granville, costa francese della Manica. Non era quel che si dice il posto più comodo per trascorrervi l’adolescenza e infatti, terminata la Grande Guerra, Christina Dior si trasferì a Parigi, dove entrò in contatto con artisti del calibro di Max Jacob e Jean Cocteau, vere e proprie icone della cultura francese.

Sono anni folli, non solo in America. Confidando nel giro in cui è entrato grazie - insieme - al suo talento e alla sua riservata e timida omosessualità, Christian apre col suo amico Jacques Paul Bonjean una Galleria nella quale, da Picasso a Matisse fino a Salvador Dalì e Calder, passa il meglio dell’arte mondiale del tempo - e di quello successivo. Cose serie. Sopraggiunge la crisi del Ventinove. Tutto fermo. Due anni dopo muore la madre e il padre fallisce. La casa in cui Christian aveva trascorso l’infanzia viene venduta al comune (oggi è un museo). Era la casa alla quale, più tardi, Dior confesserà di esser debitore di tutta la sua immaginazione estetica.  Dolore atroce.

 

 

Per dieci anni il ragazzo ormai non più ragazzo sopravvive vendendo di tanto in tanto qualche quadro, ma soprattutto grazie alla solidarietà degli amici, uno dei quali lo spinge a cercare di vendere degli schizzi che, evidentemente, gli riuscivano bene. Terminato il servizio militare riesce a vendere dei modelli a due case di moda importanti, Nina Ricci e Balenciaga. Viene addirittura preso a lavorare da Robert Piguet - detto Il Principe della Moda - quando scoppia nuovamente la guerra e Christian viene richiamato per un anno. Terminato il quale, privo com’è di risorse, raggiunge il padre sulla costa del Mediterraneo.

Le cose vanno di male in peggio e così il giovane artista ancora in cerca di sé torna a Parigi nel 1941, si vede portar via la sorella dalla Gestapo, ma continua a lavorare fino a che, tornata la pace (e la sorella), ha la sua grande occasione, sa bonne chance: un grande industriale del cotone, Marcel Boussac, gli chiede di realizzare degli abiti coi suoi tessuti. Perché Boussac lo chiede proprio a lui? Perché aveva capito che, mentre gli altri sarti facevano un vestito con tre metri di stoffa, Dior ne impiegava venti. Per uno che vuole vendere stoffe, e che durante la guerra si è trovato in difficoltà, questo scialo di materiale è una vera e propria manna.

Si arriva così, due anni dopo - 1947 - alla prima, rivoluzionaria, sfilata parigina. «E Dior creò la donna», come si disse allora. In che senso? Nel senso che Dior disse alle donne che avevano il diritto di spendere quel che volevano per essere belle, perché belle lo erano già, ma con qualche accorgimento potevano diventare addirittura splendide. Brillare di luce propria. E dunque: prima di tutto linee morbide morbide e gonne lunghe, perché il tempo della fame e dei vestitucci era finito. Spalle tondeggianti, perché gli abiti con le spalline militari andavano bene negli anni passati, ma adesso era tornata la primavera e c’era la pace. E così sul numero del 12 febbraio ’47 Carmel Snow, redattrice capo di Harper's Bazaar, poté scrivere: «Caro Christian, i vostri abiti lasciano intendere una specie di new look!». Parola magica. È la consacrazione.

 

 

Ma cos’è questo new look? È lo sciame dei fantasmi femminili di Dior - le nobildonne del Settecento; le affascinanti signore dell’Epoca di Napoleone III, come la contessa Castiglione; le ragazze di Parigi pronte a correre all’invito del bel mondo; le sartine coi loro sogni e i loro amori da mansarda - fuso in un oggetto di sartoria che - si ha quasi paura a dirlo - è la versione preziosa, raffinata, alta e contemporanea del vestito da principessa che le bambine indossano a carnevale. Il tutto, ovviamente senza che le signore se ne accorgano troppo.

Come ha scritto lo storico della moda Farid Chenoune, Dior è l’anti-Chanel. Dior riprende la storia della moda dal punto in cui Coco Chanel l’aveva interrotta. Non ha paura ad alludere alla crinolina, al posteriore rialzato, ai corsetti che non lasciavano respirare. «Sottolinea quella che chiamerei la trinità anatomica: il vitino, i glutei, il seno.(…) ma questa iperfemminizzazione della silhouette viene proposta in maniera estremamente raffinata, passata al vaglio dei codici dell’eleganza. I fantasmi originari vengono continuamente respinti sullo sfondo».

E qui la frase definitiva di Farid Chenoune: «Con Dior, la donna diventa donna-oggetto. “Ob-iecta” nel senso latino dalla parola: gettata innanzi, per essere vista, consumata dallo sguardo, come un’apparizione». Donna-oggetto, dal Sessantotto in poi, è una brutta espressione, che non ha però nulla a che fare con Dior, per il quale pensare alla donna come una cosa da mostrare significa organizzarle attorno un mondo incantato nel quale si sente felice di entrare come Cenerentola nella zucca-carrozza che la porterà al castello.

 

 

Olivia de Havilland, famosa attrice e cliente fedele della maison, ricorda che quando si entrava nell’atelier «immediatamente accorrevano tutte le Fate Campanellino che si occupavano di voi, alcune delle vostre mani, altre delle vostre orecchie, altre ancora dei piedi … così che alla fine si usciva completamente “indiorizzate”. Gli accessori e il trucco diventano un’arte estrema o, se si vuole, un’arte delle estremità: si diventa Dior fino alla cima delle unghie» (Farid Chenoune). Succedeva esattamente così. Quando le signore del nostro mondo peninsulare andavano a Parigi per rifarsi il guardaroba per la stagione successiva tornavano «indiorizzate» perfino nella voce, nelle movenze.

E per consentire alle sue donne di prolungare la magia il grande sarto, memore della tradizione familiare commercio e industria, si dedicò a creare un impero mondiale di accessori preziosi. Come ebbe a dire una volta il suo primo “tagliatore”, l’italiano poi francesizzato Pierre Cardin, l’alta moda - fatti i conti come si deve - rende pochissimo, nonostante il costo spropositato di ogni abito. Ma serve per lanciare i prodotti che tutti riescono a comperare: foulard, cravatte, profumi. Ad esempio, uno può benissimo non essere in grado di portare la moglie a Parigi due volte l’anno per “vestirla” come si deve (comme il faut) dall’abito da sera fino alla guepière malandrina. Però può sempre comperarsi - nello speciale reparto profumi che alcuni supermercati hanno attrezzato o, meglio, in una profumeria del centro - un flacone di Farenheit Le Parfum da 75ml: con un centinaio di euro si porta a casa un ottimo profumo e una boccetta color rosso. Rosso Dior, per la precisione.

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