«Più che bravura ho avuto fortuna»

«Così scampai alla fucilazione» La buona sorte del soldato Cagnoni

«Così scampai alla fucilazione» La buona sorte del soldato Cagnoni
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Giacomo Cagnoni è un anziano signore di Gazzaniga che contempla il mondo dall’altezza dei suoi 91 anni. Seduto sul divano di casa guarda all’indietro e si sorprende, lui per primo, di essere ancora qui. Non solo per l’età, ma per le vicissitudini che ha attraversato, soprattutto negli anni della guerra, quando in più occasioni ha rischiato la vita. Anni folli, quelli tra il ’43 e il ’45: si combatteva coi fascisti, ma li si odiava, gli Alleati per liberare il paese ne martoriavano il territorio, i giovani soldati disertavano, ma così facendo garantivano la sopravvivenza di almeno una parte del tessuto sociale italiano. Giacomo Cagnoni ha visto e ha attraversato tutti questi scenari con grande coraggio e «una buona dose di fortuna», riconosce lui stesso. La sua storia è davvero straordinaria e preziosissima, perché oltre a mostrare le difficoltà e le miserie di quell’Italia lacerata e prostrata, evidenzia l’assurdità della guerra. Lo seguiamo passo passo nel racconto.

12 maggio 1943. Giacomo era un ragazzo di 19 anni. La sua famiglia aveva già visto partire due fratelli per la guerra: il primogenito Adamo in Russia, il secondo Luigi in Francia. Per questo il padre sperava di poter trattenere l’ultimo figlio rimasto a casa, richiedendo l’esonero dalla chiamata alle armi. Ma la risolutezza di quell’Italia non aveva misericordia per nessuno e Giacomo fu costretto a lasciare la sua Gazzaniga e il pur duro lavoro agricolo per unirsi alle truppe del Regno. I genitori lo salutarono senza sapere se avrebbero mai rivisto anche solo uno dei tre fratelli. Il primo dalla Russia non tornò più.

La caserma di Venaria Reale presso Torino fu lo scenario dell’addestramento: «la mia testa però era a casa, costantemente rivolta alla mia terra», ricorda Cagnoni. Furono mesi duri, sia per la disciplina, sia per i frequenti bombardamenti. «In quelle terribili notti, al suono della sirena tutte le truppe dal terzo piano correvano a rifugiarsi in un bunker sotterraneo». L’esercito era scisso tra i veri fascisti, “le Camicie Nere”, tutelati e privilegiati, e gli altri soldati che non condividevano per niente quegli ideali. Le tensioni esplosero alla notizia della caduta di Mussolini: molti fascisti furono aggrediti, l’odio si manifestò con grande evidenza. Ma dopo l’armistizio le cose peggiorarono ulteriormente.

Il mio 8 settembre. Racconta Giacomo: «Ero in libera uscita, quando si venne a sapere dell’armistizio. Si sentiva gridare: “La guerra è finita!”. Quella notte in caserma non dormì nessuno, le brande erano state ribaltate per l’euforia». Ma dopo due giorni tutti i soldati vennero chiusi in caserma; non si poteva fare niente, non si sapeva niente. «Il tenente ci fece consegnare tutti gli otturatori dei fucili in modo da lasciarci disarmati; io fuggii di sera verso le 22 insieme ad un amico di Castione della Presolana conosciuto lì. Scrivemmo due biglietti da scambiarci coi rispettivi indirizzi perché se uno dei due fosse mancato, l’altro avrebbe dovuto avvisare i familiari. La strada per tornare a casa era lunghissima; i soldati fuggitivi percorrevano vie secondarie, sentieri tra i boschi, per non essere intercettati dai tedeschi». «A Chivasso riuscii a scampare ai tedeschi, che avevano radunato tutti i giovani del posto per poi deportarli. Fortunatamente, i civili venivano spesso in soccorso dei soldati, indicando loro i sentieri da percorrere per sfuggire alle retate. Tra i vari percorsi, costeggiai il Canale Cavour per ben 40 chilometri, da Chivasso sino a Vercelli e oltre. Quelle zone erano piene di giovani, un andirivieni fitto di uomini in fuga. Percorsi alcuni tratti addirittura a piedi nudi, con i pantaloni consumati e bucati per le nottate passate all’addiaccio. Solo a Bergamo potei prendere il treno che mi riportò finalmente a casa»

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Come scampai alla fucilazione. Quando la Repubblica di Salò riorganizzò un esercito per combattere gli Alleati in risalita da Sud, Giacomo dovette nuovamente arruolarsi. Aveva 20 anni e quindi era ancora in età per il servizio di leva obbligatorio. La prima chiamata era stata nel corpo dell’artiglieria someggiata, questa volta fu assegnato ai Bersaglieri. A fine maggio era a Forlì e, racconta, «un pomeriggio decisi di scavalcare il muro di cinta della caserma per andare a caccia, perché la testa era quella di un ragazzo. Al rientro, fui fermato dal caporale di guardia: dei sei colpi nel caricatore ne era rimasto solamente uno. Proprio quel giorno, però, era stata uccisa una guardia e il tenente colonnello decise arbitrariamente che chi aveva sparato alla guardia ero io. La pena era la fucilazione. Fui piantonato per due giorni mentre le truppe viaggiavano verso Pesaro. E anche in questo caso intervenne la fortuna: del tenente colonnello Vittorio Facchini, il mio accusatore, non se ne seppe più niente (probabilmente tradì la causa di Mussolini, si intonavano cori di scherno nei suoi confronti: “A morte Vittorio Facchini, nemico e traditore”) e quindi i soldati di guardia mi rilasciarono».

In quelle settimane a Forlì, Cagnoni vide anche il bombardamento della stazione da parte degli Anglo-Americani; i morti civili erano moltissimi. Ai soldati fu ordinato di formare un cordone di sicurezza per impedire ai parenti delle vittime di avvicinarsi troppo. Giacomo, evidentemente sopraffatto dall’empatia verso quelle persone disperate, fece passare qualche d’uno. Un tenente voleva punirlo per questo, perché non era stato abbastanza duro.

L’odissea per tornare a casa. Anche a Forlì l’idea fissa era tornare a casa. E i tentativi di fuga furono due: il primo non ebbe successo e quindi Giacomo dovette rimanere fino ad agosto nella zona, tra Pesaro, Cattolica, Gabicce Mare. Svolgeva la mansione di guardia costiera, mentre gli Alleati bombardavano il territorio. La zona era militarizzata, essendo a ridosso della Linea Gotica: «Ci si muoveva nei camminamenti, gettandosi a terra quando arrivavano le raffiche di proiettili. Una notte Ancona fu bombardata sia per via navale che aerea: la terra tremava». L’attività militare svolta dagli italiani in quelle situazioni era di risibile portata: «Noi avevamo solo il fucile, mentre Tedeschi e Alleati si facevano la guerra con cannoni, missili, aerei».

Un momento decisivo si ebbe a Gambettola: da lì partivano treni per il fronte o per la Germania, i soldati non venivano di certo informati con precisione. «Alcuni amici partirono da lì e non fecero mai più ritorno, ma io riuscii in qualche modo a fuggire. Mi si aprì quindi una lunghissima strada da percorrere a piedi, in compagnia di un amico, Giulio Ghilardini, compaesano di Gazzaniga. Trascorremmo la notte dormendo su un pagliaio ma al risveglio ci trovammo di fronte un tenente tedesco». I due avevano ideato una scusa per giustificarsi in caso di domande, ma quel tedesco non capiva la lingua e voleva portarli a Forlì per fare tradurre ad un interprete. La scusa ideata prevedeva che i due si stessero dirigendo a Verona per motivi militari, ma Giacomo si rese conto che la storia forse non era abbastanza credibile.

Colse quindi l’unica occasione per fuggire: prese la scusa mimando con i gesti la necessità di andare a fare i suoi bisogni dietro al pagliaio e da lì si lanciò di corsa tra i campi di grano, tentando una fuga disperata. Giunse nei pressi di un fiume in secca, che gli lordò la divisa col fango, poco distante un gruppo di soldati tedeschi faceva il bagno nel fiume: chiese quindi aiuto a dei contadini in una casa poco distante. Lì poté pulire i suoi abiti e rifocillarsi, ma ripartì presto perché tutte le case della zona erano abitate anche da tedeschi. Fuggì attraverso un vigneto e in quel momento lo assalì la paura: era solo, aveva dovuto lasciare indietro il suo amico, la strada per tornare a casa era molta. Non sapeva cosa fare ed ebbe una crisi di pianto; ma si decise a ripartite, tornare indietro non aveva senso.

Percorse un tratto di strada con un sergente maggiore di un altro corpo; un meridionale che non poteva tornare a casa perché il Sud era già occupato dagli Alleati. Giacomo utilizzò con lui la scusa del viaggio verso Verona, ma per evitare di sbagliare e contraddirsi non pronunciò più di dieci parole in un giorno e mezzo di viaggio. Il sergente disse che aveva tre giorni di permesso e stava andando a trovare dei parenti a Nord; finse di credere alla storia di Giacomo ma quando si separarono lo salutò augurandogli buon rientro a casa. Chissà poi se anch’egli avesse davvero un permesso o stesse disertando.

Il viaggio durò almeno sette/otto giorni. Di notte veniva ospitato dai civili che accoglievano volentieri i soldati italiani, anche perché loro stessi avevano figli nell’esercito e capivano la drammaticità della situazione. Una volta si fermò due notti e un giorno in una fattoria, dove aiutò il proprietario a mungere; il padre di famiglia desiderava che Giacomo si fermasse di più a lavorare con loro (conosceva bene il mestiere). Ma il richiamo di casa era troppo forte; il mattino seguente si alzò presto e disse che se ne sarebbe andato. Il vecchio lo salutò con il volto solcato dalle lacrime e gli diede 50 lire per aiutarlo col viaggio. La paga dei soldati era di 13 lire ogni dieci giorni, ma di fatto ne ricevevano 7 o 8. L’aiuto non era quindi da poco. In ogni caso per il cibo l’aiuto principale arrivava dai civili, che fornivano pasti ai giovani soldati senza pretendere nulla in cambio.

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A casa, ma non al sicuro. Una volta tornato, si nascose a Ganda, presso Aviatico, nella stalla di montagna. Non era finita: entro il 10 novembre 1944 bisognava presentarsi perché Mussolini aveva promesso il lavoro a tutti i giovani. Il padre di Giacomo mandò diverse volte un garzone a chiamarlo, ma lui non si fidava più di nessuno. Alla fine, a poche ore dalla chiusura del bando, si decise a rispondere alla chiamata. Fortunatamente, non si trattava di un inganno e gli fu assegnato un lavoro presso la miniera di Leffe.

Quando il peggio sembrava passato, ci fu un ultimo episodio di grave pericolo. Giacomo lavorava in miniera, ma non gli era stato ancora dato un lasciapassare ufficiale. Fu fermato una notte dai tedeschi, al termine del turno di lavoro. Non avendo il tesserino, i tedeschi lo trattennero diverse ore: il rischio era grosso, una scelta arbitraria di qualche ufficiale poteva significare deportazione o morte. Anche questa volta le cose andarono per il verso giusto e dopo qualche ora fu rilasciato. «In quegli ultimi mesi di conflitto la situazione non era meno drammatica e confusa: alla radio si sentiva solo la propaganda del regime, con racconti di vittorie spesso inventati, mentre a Radio Londra dicevano tutto il contrario; verità diametralmente opposte, come quelle dei partiti di oggi», dice Giacomo sorridendo. Anche i partigiani, pur poco presenti nella media Valle Seriana, compivano  frequenti requisizioni, a tal punto che furono ribattezzati «grattigiani» per la loro abitudine a «grattare». Oltre ai numerosi capi di bestiame sottratti, il signor Giacomo ricorda nitidamente che una volta uccisero un uomo per prendergli l’orologio d’oro.

Episodi che raccontano in modo evidente le contraddizioni insite nella guerra. Cagnoni ha visto e ha attraversato tutti questi scenari con coraggio e una dose abbondante di buona sorte. O Provvidenza, chiamiamola come vogliamo. Lui, guardando indietro, lo ripete ancora: «Più che bravura, ho avuto tanta fortuna».

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