Covid, il medico Gabriella Formenti e la testimonianza di una vita mutilata
Il dottore di base di Tavernola Bergamasca racconta la sua durissima esperienza con il coronavirus: «C'è un esercito silenzioso: sono i reduci della malattia, categoria che oggi è finita in un cono d'ombra»
Gabriella Formenti, 64 anni, faceva il medico di famiglia a Tavernola Bergamasca. Dopo che il Covid-19 le ha sconvolto la vita, però, ha appeso il camice al chiodo. «Sono andata in pensione. Avrei voluto lavorare ancora un paio d’anni. Ma, a distanza di 11 mesi da quando mi sono ammalata, non c’è stato per me un pieno ritorno alla normalità. Non sono più come prima, non c’è verso. E forse non lo sarò mai più», dice.
Una vita mutilata dopo il Covid
«La vita dopo il virus – quando ha colpito duro – può essere mutilata. C’è un esercito silenzioso: sono i reduci della malattia, categoria che oggi in un’Italia che non si è ancora lasciata alle spalle l’emergenza coronavirus, alle prese con i numeri dell’epidemia e la sfida dei vaccini, è finita in un cono d’ombra», denuncia Gabriella all’Adnkronos Salute. «Bollati come guariti nella conta dell’epidemia, insieme a tutti gli altri. Mi fa rabbia perché un tampone negativo non equivale sempre a una guarigione – dice la dottoressa –. Noi ci siamo e siamo tanti. Su di noi il Covid ha avuto un impatto devastante dal punto di vista fisico e psichico».
Sars-CoV-2 può fare male e rimanerti addosso a lungo. «E dietro i numeri ci sono persone, famiglie che soffrono. Se non rientri nel novero dei fortunati, fai i conti con una malattia estrema e ho timore che tanti concittadini non lo capiscano, che si siano fatti l’idea che alla fine è una brutta influenza, ti fai qualche giorno in quarantena sul divano davanti alla tv ed è finita lì. Non è sempre così».
La storia di Gabriella
Per Gabriella è stato un viaggio andata e ritorno dall’inferno. Due mesi in ospedale, anche intubata in terapia intensiva. È andata in arresto cardiaco più volte ed è stata defibrillata. Ha dovuto fare i conti con varie complicanze, compresa un’insufficienza renale severa, un’emorragia che ha reso necessarie trasfusioni, un’infiammazione importante alle mani. Fino al risveglio da incubo: «Quando sono uscita dalla rianimazione, mi sono resa conto che riuscivo a muovere solo la testa, è stata una coltellata». La riabilitazione è stata «cruciale per rimettermi in piedi. E non si parla tanto di questo aspetto che ti restituisce l’autonomia perduta». Stabilizzata, Gabriella passa all’Irccs Maugeri di Lumezzane (Brescia). E una volta dimessa entra nel progetto di teleriabilitazione e telesorveglianza dell’Istituto. «Nel mio calvario non sono stata lasciata sola», spiega.
Il pensiero per chi vive la battaglia «dopo la malattia»
«C’è un problema sociale grosso, che non si può negare o far finta di non vedere. È l’eredità di Covid: migliaia di persone che diventano malati cronici. E se succede quando sono ancora nel pieno della vita lavorativa? Io sono uscita dall’ospedale in carrozzina. Come fa un 50enne che non riesce a lavorare, ma non può andare in pensione e lo stipendio gli serve per vivere?», si chiede il medico.
Per lei il Covid è stato un fulmine a ciel sereno. Era alle prese con le attività da medico di famiglia, aveva appena archiviato la maxi vaccinazione anti-meningococco C che era stata lanciata dopo alcuni casi registrati nella zona del Basso Sebino. Erano i primi giorni di marzo 2020, l’emergenza sanitaria stava travolgendo la Lombardia.
I sintomi del Covid per Gabriella
«Erano inizialmente quelli di un’influenza più pesante. Avevo contattato tutti i numeri che allora erano stati messi a disposizione, da quello ministeriale a quello regionale, e mi dicevano di restare a casa, che fare il tampone non serviva. Poi l’affaticamento respiratorio. Ero andata a dormire che non respiravo tanto bene, mi risveglio con una desaturazione molto importante. Controllo i valori, sono a quota 86-87 – ripercorre la professionista –. In autonomia mi presento in pronto soccorso all’ospedale di Chiari».
«Quando ho visto l’esito della radiografia al torace mi si è gelato il sangue: era una polmonite bilaterale interstiziale con un residuo di tessuto respiratorio veramente minimale. Con i colleghi mi sono chiesta come facessi ancora a respirare. È stata una cosa brutale. Comincia la discesa verso l’abisso: l’ossigeno ad alti flussi e poi il casco Cpap non bastano più».
Il ricovero
«La mia memoria ha cancellato diversi giorni, ho aperto gli occhi ed ero intubata. Guardavo il monitor e vedevo brutti parametri. Ho pensato di non farcela. Mio marito e mio figlio si aspettavano da un momento all’altro la telefonata dall’ospedale che annunciava che me n’ero andata. E invece sono una pellaccia – sorride – e a un certo punto è cominciata la ripresa».
«È stato un percorso duro. È difficile tornare alla vita quando perdi 15 chili di muscoli. Non riuscivo più a comandare il mio corpo. I primi giorni di riabilitazione sono stati di tensione assoluta. Avevo paura di cadere, di non reggermi, non riuscivo neanche a passare da sdraiata a seduta sul letto. I fisioterapisti che mi hanno seguita amorevolmente hanno dovuto lottare con la mia situazione e con l’aspetto psicologico che mi frenava. Hanno avuto pazienza, sono stati molto bravi. Professionali e umani insieme. Mi hanno infuso sicurezza e mi hanno convinta a crederci. Ho un carattere forte che mi aiuta, ma può essere un ostacolo perché fatico a fidarmi degli altri. Loro sono riusciti a vincere le resistenze e io mi sono adattata, rispondevo a quello che mi dicevano di fare».
«Mi hanno recuperata – prosegue il medico – con un lavoro lungo e quotidiano. Quando sono uscita la situazione era rose e fiori rispetto a quando avevo cominciato il percorso, ma ero ancora malconcia. Facevo pochi passi col deambulatore, anche i due scalini bassi all’ingresso di casa mi sembravano un ostacolo insormontabile. Ho sorriso quando sono tornata in paese, mi hanno accolto con una festa inaspettata, hanno persino suonato le campane. Commovente. Ma l’autonomia era ancora lontana. E fa male sentirsi così. Il reparto di riabilitazione dell’Irccs Maugeri mi ha seguita anche a casa. Avevo un programma di esercizi da fare con la fisioterapista, e dal centro mi chiamavano e mi facevano i test per monitorare i miei progressi: tempo di esecuzione, saturazione, pressione sanguigna. È stato molto importante. Le chiamate si sono gradualmente diradate, da due a settimana a una ogni 15 giorni via via che la situazione migliorava».
Oggi la vita non è più la stessa
«Cammino, faccio quel che serve, ma ancora soffro davanti a una salita piuttosto lunga o dopo qualche rampa di scale. Gli sci, una mia passione, sono rimasti in cantina. Il lavoro ho dovuto mollarlo proprio perché qui in paese ci sono anche tratti impervi, e in caso di un’emergenza, della necessità di dover fare una visita a domicilio, ho pensato: come faccio? La fisioterapia per me continua, per non perdere i traguardi acquisiti. Ci vorrà tempo. E io posso pagare qualcuno che venga a casa due volte a settimana. Chi non può, come fa? Prenota in una struttura, ma bisogna vedere i tempi d’attesa. Ci sono aspetti che non vengono presi in considerazione. Come appunto la riabilitazione. Un’assistenza domiciliare deve intervenire – conclude Gabriella –. Non può finire con un mese di ricovero in ospedale. Io ho avuto la fortuna di avere un marito medico che mi è stato vicino e di poter usufruire di un progetto che prevedeva proprio questo: non far sentire abbandonata la persona al rientro a casa. Ora si pensi a chi è solo e lotta per vivere».