Dai Vasco, non è andata poi male
Che cos’è una rockstar? È uno che ha idee piuttosto incerte su se medesimo, ma in compenso le ha molto dettagliate su cosa rappresenta per gli altri. Tra il primo e il secondo io, tra la persona che ogni mattina subisce il duro impatto della propria immagine allo specchio (Duro incontro, nell’album Sono innocente, ndr) e l’idolo delle folle moltiplicato dalle copertine degli album e dei rotocalchi, dalle locandine dei concerti e dai concerti stessi si apre un baratro difficile da quantificare nelle sue dimensioni, ma che costituisce comunque lo spazio che rende possibile il mito.
Nell’intervista rilasciata al direttore di Rolling Stones Massimo Coppola in vista del prossimo tour, Vasco Rossi racconta di provare un certo disagio per il fatto di doversi portar dietro il Vasco Rossi degli altri, dei fans che - lui lo capisce benissimo - non hanno presente un 63enne di Zocca, ma la Rockstar che è diventato dopo che una fortunata coincidenza gli evitò di morir giovane come, appunto, fanno tutte le rockstar che si rispettano. Kurt Cobain in primis. Dice che era stato programmato per arrivare al massimo a trentacinque anni e invece, aggiunge, «Alla fine mi è toccato vivere. Ed è stata durissima».
Sembra che il superlativo si riferisca essenzialmente ai due anni successivi all’incidente da cui emerse fisicamente illeso, quando non riusciva più a scrivere canzoni: perché poi, chiacchierando, continua a ripetere che gioca quando compone, scherza quando registra gli album, dà tutto di sé nei concerti - perché è un professionista serio - e soffre quando si allena nei boschi per presentarsi in forma strepitosa sul palco, come chiedono le folle che accorreranno ad ascoltarlo. Ed è questo, il momento della musica che accade, che si fa, l’unico momento in cui i due Vasco ritrovano l’unità.
Sarà pure che vivere è stato durissimo, ma crediamo che chiunque ci metterebbe la firma su una prospettiva così. Soprattutto quelli che non sanno cosa sia attraversare il tempo sotto la perenne minaccia di una musica che non ti viene più a trovare, di parole che - da un giorno all’altro - ti sembrano una più stupida dell’altra perché le altre ancora, quelle che vorresti, si son perse chissà dove.
Comunque dài, Vasco, c’è chi ha avuto in sorte di peggio. Non mettiamola giù così dura. Hai avuto la fortuna - rara - di vedere le tue parole lette - e fatte proprie dai tuoi fan - in maniera diversa da come pensavi di averle scritte tu, ma che a loro andava benissimo e quindi, di ritorno, anche a te. Riesci a consolarti pensando - come suggerisce il tuo intervistatore - che ha del miracoloso il tuo essere sopravvissuto nell’Italia ancora prevalentemente ipocrita e bigotta degli ultimi 30 anni. Hai una “famiglia rock’n roll” diversa dalle altre, cioè «più normale di quelle perbeniste e ipocrite», come le chiama, ribadendo il concetto, il tuo amico Massimo Coppola.
Sei andato la prima volta a Sanremo solo per farti notare, perché avevi bisogno di una platea nazionale e dunque ci andasti per fare il matto. «“Così si accorgono di me”, pensavo. Era una strategia. Solo che poi hanno pensato che fossi un po’ suonato per davvero. Mentre invece io ero molto lucido». E sei riuscito a mantenerti in buoni rapporti con te stesso. Non come il papa cui allude, pensando al seguito che hai, chi ti fa le domande. Piuttosto come il Principe che deve saper gestire bene la sua maschera davanti al vulgo - Machiavelli docet. Ottimo. Ti è andata alla grande, allora. Altro che «durissima».
Quanto alla divisione tra te in quanto te e la rockstar che porta il tuo nome: tranquillo, è così per tutti, anche per gli impiegati del catasto. C’è un abisso fra chi timbra il cartellino e il nome che lo rappresenta sul badge con tanto di fotografia. Si chiama psicopatologia della vita quotidiana. Dici che in questi tempi stai leggendo molto di psicanalisi. Attento a non farti del male, allora.