Le elezioni di un altro mondo

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Se c’è una cosa stucchevole sui giornali sono i commenti il giorno dopo le elezioni. Perché diciamoci la verità: le grandi firme della politica non ci hanno mai preso veramente, sono quasi sempre arrivate in ritardo. Non ci hanno preso quando è nata la Lega, bollandola come un fenomeno da baraccone; non hanno capito all’inizio e neppure il seguito del fenomeno Berlusconi (insieme avrebbero segnato vent’anni della nostra storia); sono rimaste spiazzate anche quando Renzi ha fatto rinascere un grande centro post democristiano. Sempre un passo indietro, sempre infilate in contropiede. Eppure Gaber ci aveva avvertiti: «Noi scendiamo in piazza, siamo democratici, siamo antifascisti, la realtà è più avanti, siamo sempre indietro, la realtà è più avanti». I commentatori non ci hanno quasi mai preso perché gli stessi giornali sono dei partiti e perché i giornalisti frequentano più le stanze del potere che le strade delle città e le case delle persone comuni. Neanche questa volta ci hanno preso. Tutti si aspettavamo la vittoria della Raggi a Roma, gliel’avevano servita su un piatto d’argento, pochissimi invece avrebbero scommesso sul successo della Appendino a Torino. Ed è l’inattesa vittoria di quest’ultima, o se volete la sconfitta di un bravo sindaco come Fassino, a fare la differenza, a farci rendere conto soltanto oggi che siamo ancora una volta di fronte a un altro mondo. In effetti, Virginia Raggi e Chiara Appendino non sono soltanto le punte di diamante di un movimento, i Cinque Stelle, che per la prima volta si insedia al governo delle metropoli. Prima ancora sono due donne, due volti giovani, anagraficamente e politicamente, rappresentanti di un’Italia ferita dalla crisi economica, un Paese che non vuol più sentir parlare di destra e sinistra, di berlusconismo e antiberlusconismo e forse neppure di renzismo, la cui parabola rischia di durare lo spazio di un mattino se il premier rottamatore non riprenderà, con ancora maggior vigore, la strada del cambiamento. C’è un’Italia diversa, laica, distante anni luce dall’establishment politico, europeista e finanziario, che preme dal basso per voltare pagina e non fa sconti a nessuno. Un’Italia che non va a votare - a Napoli c’è andato il 37,89 percento e stiamo parlando di sindaci, cioè di quanto ci è più vicino - o che se si reca alle urne lo fa per ribaltare ogni volta tutto. L’Ancien Régime resiste, malinconicamente, solo nei giornali che oggi, col consueto ritardo, parlano di rivoluzione. Anche nella Bergamasca, ieri, si è avuto un primo segnale di questa svolta, con la vittoria di Claudio Bolandrini a Caravaggio. Era il candidato del Pd, certo, e giustamente il centrosinistra festeggia l'inatteso successo. Ma l'affermazione di Bolandrini non è quella di un uomo dell’apparato, bensì quella di un candidato sconosciuto ai più, fuori dai giochi, che a sorpresa ha mandato a casa dopo vent’anni un vecchio leone leghista come Ettore Pirovano. L’ex parlamentare ed ex presidente della Provincia era tanto sicuro del fatto suo da permettersi di usare parole sprezzanti contro i suoi avversari. Pensava che alzando i toni la gente l’avrebbe premiato ancora, ma questo accadeva un secolo fa, quando a Bergamo gli elettori votavano la destra, la sinistra o la Lega. Neanche lui si è accorto che intorno era cambiato il mondo.

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