La vanità e il disco fisso

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Primo: passeranno il cielo e la terra, ma non finiranno i commenti al brano biblico (Qoèlet 1, 2-11) sul quale papa Francesco si è soffermato il 25 settembre nell’omelia in santa Marta. Detto ciò, vediamo. Il passo è quello che comincia: Vanità delle vanità, dice Qoèlet, / vanità delle vanità, tutto è vanità, per proseguire mostrando come sia fondamentalmente inutile fare qualsiasi cosa, perché tanto non si arriva mai a capo di niente. E anche quando ci si arrivasse, nessuno se ne ricorderebbe. Disperante.

Il papa ne ha preso spunto per dire che i cristiani vanitosi - nel linguaggio giovanile: quelli che se la tirano - non funzionano. Sono come bolle di sapone che scoppiano dopo pochi secondi; come pavoni che si credono furbi perché fanno la ruota. Ne emerge un desolante catalogo di quei tipi umani che altri hanno definito «cristiani più di sagrestia, che di chiesa», sempre occupati a far vedere che son meglio degli altri. Perfino coi monumenti funebri se l’è presa, papa Francesco: «perché la nostra verità è tornare alla terra nuda, come diceva Paolo VI». Che te lo costruisci a fare il monumento? Da “vanità” a “vanitoso”.

Ma il biblico (e forse depresso) autore del testo non se la prende soltanto coi vanitosi. Sostiene che è inutile, vano, tutto: inutile il sole che gira, perché ogni giorno è da capo; inutile il vento che prima è di tramontana, poi gira a libeccio e poi di nuovo a tramontana; inutile l’andare dei fiumi verso il mare perché tanto il mare non sarà mai pieno; inutile ascoltare perché tanto ci sarà sempre dell’altro da stare a sentire, parlare perché tanto non riusciremo mai ad esprimere il nostro pensiero fino in fondo. Tutto inutile. A quanto pare l’unica cosa che non ritiene inutile è scrivere, perché altrimenti - si suppone - non farebbe nemmeno quello.

E allora? Dice il papa: smettetela di fare i vanitosi e aiutate il prossimo, pregate, fate queste cose qui. Sì, come se anche in questo si arrivasse mai al punto: aiuti oggi, aiuti domani ci sarà sempre qualcun altro da aiutare - obietterebbe l’incaricato di convocare l’assemblea (qoèlet vuol dire questo). Provati a dar retta a uno che ti telefona per avere un consiglio (opera di carità spirituale) su come fare con la moglie e ti trovi col telefonino attaccato all’orecchio come una protesi per il resto dei tuoi giorni, tanti sono coloro che vogliono che tu li ascolti.

Non è così. L’antico israelita non sapeva nulla di computer, però se ne avesse avuto uno sottomano ne avrebbe tratto una metafora in grado di spiegare meglio il suo pensiero. Sapete come va col computer: uno scrive, ci mette delle tabelle, dei disegni, linka ad altri siti, usa il verde per le parole importanti. Una figata, insomma. Sono o non sono un genio del computer?

Bene, tutto questo - che è davvero un bel lavoro - è vano, fa puff! come una bolla di sapone, se uno si dimentica di salvare. Salvare vuol dire fissare il lavoro sul disco. Dimenticarsi di salvare vuol dire farsi prendere dalla cosa, innamorarsi del file, e dimenticarsi del Disk C: o qualunque lettera sia quella del vostro disco.

Vano è - anche quando sia bellissimo - il lavoro di chi dimentica che le cose non consistono in sé, che sono nulla fin tanto che svolazzano nella memoria labile della RAM, cioè del proprio umore momentaneo. Consistono, le cose, in rapporto al disco. In questo rapporto ogni cosa, anche minima, anche un apice - come dice il Nostro Maestro, un apostrofo - rimane invece eterno, fissato per sempre. Non importa se nessuno sa quel che state facendo di bene, ha detto il papa. Dio lo sa. Appunto: ricordatevi di salvare. Altrimenti detto: se scrivete, fatelo davanti a Dio.

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