Felice Perani, il sopravvissuto che ha commosso due presidenti della Repubblica
Salvato in Germania. «Avevo sempre pensato di poter vivere da solo, ma basta un nulla e non conti più niente. Darò vita a un’associazione per aiutare gli scampati»
di Paolo Aresi
Appuntamento alla stazione di Albino, alle quattro. Felice Perani cammina zoppicando, con la mascherina chirurgica ben sistemata sul naso. Felice è uno dei bergamaschi salvati in Germania, uscito dall’ospedale a giugno, dopo tre mesi di ricovero, con tanto di terapia intensiva e coma farmacologico durato una quindicina di giorni. Camminiamo fino al bar, ci sediamo. Felice è tornato a vivere nella sua Casnigo, aiuta la sua mamma anziana, l’unico parente veramente stretto. Ha ripreso il lavoro nella sua scuola, l’Isiss di Gazzaniga. Ma non è più lo stesso uomo di prima.
C’è un prima e c’è un dopo. Le cose della sua vita sono cambiate dopo il coronavirus.
«Sì, sono cambiato. Fisicamente in peggio, di sicuro; ho ancora diversi disturbi, non posso fare quello che facevo prima. Ma sono cambiato anche dentro di me, adesso ho ancora più chiaro che cosa conta nella vita».
Che cosa conta?
«Il tempo ha un significato diverso, non vivo più con l’orologio in mano. Cerco di dare tempo sempre alle persone, più che alle cose da fare. La mascherina sulla bocca e sul naso lascia scoperti soltanto gli occhi, e gli occhi non mentono. Abbiamo la possibilità di comunicare in maniera profonda, con il cuore in mano, senza finzioni. Paradossalmente, senza maschere. Ancora di più capisco l’importanza degli affetti e anche dell’impegnarsi per gli altri, nel sociale. Io ero già occupato in diverse associazioni, in alcune anche in maniera intensa».
E adesso?
«Adesso vorrei impegnarmi a maggior ragione. E vorrei aiutare gli altri a capire che dobbiamo smetterla di pensare che si debba consumare per poter produrre, cioè per creare lavoro e ricchezza. Abbiamo capovolto la realtà, prima si produceva, si lavorava per garantirsi la possibilità di consumare, cioè di ottenere le cose, per lo più essenziali. Adesso l’idea è che si debba consumare per poter fare andare avanti il nostro sistema economico. No, c’è qualcosa che non va, dobbiamo capirlo».
Lei vuole avviare un’associazione dei “sopravvissuti” al Covid-19.
«Sì, perché mi accorgo che tanti di noi sono rimasti menomati fisicamente e pure mi accorgo che non sempre il sistema sanitario è in grado di capire e di aiutare. Forse un’associazione potrebbe da un lato sviluppare gli studi, le terapie, e dall’altro fare comprendere che per diverse persone sopravvissute il coronavirus ha comunque comportato conseguenze a lungo termine. Io non voglio che queste persone, come me, si sentano lasciate sole».
Lei ha incontrato i presidenti della Repubblica italiana e della Repubblica federale tedesca. Che cosa le hanno detto?
«Sì, l’incontro è stato al Palazzo Reale di Milano, settimana scorsa. Non c’era soltanto io, ma diverse altre persone che hanno affrontato l’odissea del coronavirus, anche medici, anche volontari. Io ero molto emozionato. Ho detto al presidente Frank Walter Steinmeier che la Germania è come la mia seconda mamma, perché mi ha consentito di riprendere a vivere. È la verità. Ho detto che mi hanno comprato i vestiti perché i miei erano stati buttati via, che mi hanno voluto bene e hanno anche pianto con me i medici e gli infermieri tedeschi. Sì, il presidente si è commosso. Ci siamo guardati dritti negli occhi, anche con Mattarella. Li ho sentiti vicini, ho avvertito la loro umanità, erano lì per davvero, e non per formalità. Per questo ci sono stati momenti di emozione forte. Mattarella ha detto che la mia era una storia bella, mi ha spronato ad andare avanti, sapeva che gli strascichi della malattia ci sono ancora».
Che cosa ricorda di quei giorni?
«Quando sono arrivato in Germania non ero cosciente. È successo tutto così velocemente. Ho avuto i sintomi della malattia il 14 marzo. Fino al 12 ero a scuola a preparare la piattaforma per la didattica a distanza perché io mi occupo dei laboratori di tecnologia, elettronica, elettricità... in trentadue anni di scuola, non ho mai fatto un giorno di malattia. Il 14 ero a casa con la febbre, ero da mia madre a Casnigo perché è sola e ammalata. Ero là per aiutarla e invece mi sono ammalato io. Ho chiamato una mia collega per dirle che non andavo a scuola, lei mi ha detto di controllare l’ossigeno perché il mio respiro era affaticato. Ho provato e ho verificato con il saturimetro che ero sul 68 per cento. Allora ho chiamato un medico mio amico e poi il 112, ma non rispondevano. Dopo un’ora e mezza ho provato con il 118 da numero fisso e mi ha risposto. In dieci minuti è arrivata l’ambulanza. Non si sapeva dove potessero portarmi, poi è arrivata la notizia che potevo andare al Papa Giovanni, nella terapia intensiva pediatrica. Sono arrivato là e poi non ricordo più nulla. Mi sono svegliato credo quindici giorni dopo, in Germania».