Filippine, Duterte presidente al grido: «Macelliamo i criminali»

Le Filippine hanno un nuovo presidente. Si chiama Rodrigo Duterte, ha 71 anni e ha vinto le elezioni che si sono svolte lunedì per rinnovare le principali cariche del Paese, tra presidente, vicepresidente e oltre 18 mila rappresentanti a livello locale e nazionale. Alle urne erano chiamati 54 milioni di elettori, che dovevano scegliere tra oltre 45 mila candidati. La percentuale di affluenza è stata altissima e si aggira sull’80 percento. Rodrigi Duterte non solo ha vinto, ha stravinto, ottenendo il 39 percento dei voti, quasi 13 milioni di preferenze. Guiderà il Paese per i prossimi sei anni. I risultati non sono ancora definitivi, e la Commissione elettorale potrebbe impiegare giorni prima di dare l’annuncio ufficiale, ma ormai anche gli altri candidati che lo sfidavano hanno riconosciuto la vittoria di Duterte. Per la costituzione vigente, il presidente uscente, Benigno Aquino III, la cui madre guidò la rivolta che spodestò i Marcos, non poteva essere rieletto.
«Macelliamo i criminali». Ex procuratore e per 22 anni sindaco di Davao, sull’isola di Mindanao, Duterte è soprannominato The Punisher, il giustiziere. Un appellativo affibbiatogli per la prima volta nel 2002 dalla rivista Time Magazine, mentre i politici locali lo hanno definito il Donald Trump di Manila. In entrambi i casi il motivo risiede nella sua politica di tolleranza zero nei confronti di ogni forma di criminalità. Perché la campagna elettorale di Duterte è stata tutta giocata attorno allo slogan «macelliamo i criminali». E il tempo che si è dato per smantellare la criminalità è di sei mesi.
Carente in economia. Rodrigo Duterte è nato in una famiglia di provincia, lontano dalla ricca e blasonata Manila. Ha poche conoscenze di politica estera e pochissime in campo economico, lui stesso ha ammesso di non saperne nulla, ma sopperirà alle sue carenze ingaggiando a suoi di quattrini i migliori esperti del settore. Perché Duterte vuole essere lontano dalla politica tradizionale, puntando tutto sulla sicurezza («più camere mortuarie, meno prigioni» era un altro dei suoi slogan). È un fan dell’Ispettore Callaghan, quello di «Coraggio, fatti ammazzare».
Pugno di ferro per la sicurezza. Lotta alla criminalità e al narcotraffico sono sempre stati un baluardo della sua carriera e della sua ascesa politica. Nel corso dei suoi 22 anni da sindaco Davao è diventata la “città più sicura d’Asia”, ma Human Rights Watch lo ha accusato di aver tollerato e favorito mille esecuzioni di criminali o supposti tali grazie al suo appoggio ai Davao Death Squad, gli squadroni della morte. Una politica del pugno di ferro, la sua, che ha imposto il coprifuoco per i giovani e sostenuto il diritto di fare fuoco sui sospettati.
Schietto populista. Personaggio controverso, brutale, sessista (si ricorda una sua triste battuta che ha minimizzato lo stupro di una missionaria australiana – «avrei voluto essere il primo» – in seguito ritrattata), politicamente scorretto ed emblema del populismo, Duterte ha conquistato l’elettorato parlando alla pancia della gente, con un linguaggio colorito, spesso volgare e schietto. Così come sono schiette le sue ricette per sistemare i problemi del Paese: la criminalità si risolve ammazzando i criminali. La sua idea è quella di esportare il modello Davao al Paese, perché solo in un Paese sicuro si può favorire lo sviluppo economico. E se il Parlamento non fosse d’accordo con lui, si può sempre ricorrere alla chiusura del Congresso e all’istituzione di un governo rivoluzionario.
Le prime parole da presidente. «Sarò un dittatore contro tutti gli uomini cattivi e malvagi. Lo sarò anche a costo della mia posizione o della mia vita. Non mi fermerò. Questo è un impegno solenne». E ancora: «Giudicatemi non dai titoli dei quotidiani, ma alla fine del mio mandato. Se ho fatto male, sparatemi». Sarebbero queste le prime parole di Duterte da neoeletto, che non lasciano molto spazio all’immaginazione. Del resto ha promesso l’assunzione di oltre 3mila poliziotti e il raddoppio del salario per militari e forze dell’ordine.
La contesa con la Cina. Il nuovo presidente, sebbene digiuno di questioni geopolitiche, ha avuto parole anche per la Cina, con cui le Filippine hanno in corso una contesa nel Mar cinese meridionale. Anche qui il pugno duro è una costante: «Dirò ai cinesi: non avete nulla da pretendere da quelle parti. E non avrò bisogno di insistere. Se poi vogliono fare una joint venture per il gas o il petrolio, sono i benvenuti». E la contesa per le isole, o meglio gli atolli ricchi di gas naturale è una questione non da poco per il futuro di quella parte di Asia che vede un’economia lenta, in mano a poche élite (il 26 percento della popolazione vive sotto la soglia di povertà), e tantissimi emigrati che rappresentano la principale fonte di reddito del Paese grazie alle loro rimesse.
Lo spettro dei Marcos. Nelle elezioni i filippini dovevano scegliere anche il loro vicepresidente, e al momento il vincitore sarebbe Bongbong Marcos, figlio di Ferdinand, il dittatore marito di Imelda che è stato al potere dal 1965 al 1986 e che ha trascinato il Paese in uno stato di guerriglie fratricide nei confronti del Partito comunista filippino e contro gli esponenti islamici. Sotto i Marcos le Filippine hanno visto corruzione senza precedenti e violazioni dei diritti umani, e ogni anno il giorno della loro cacciata viene celebrato come festa nazionale per il trionfo della democrazia. Con il duo Duterte&Marcos gli spettri del passato tornano a farsi vivi.