Dentro la storia

Filippo Valoti Alebardi: «Io, russo-bergamasco, non combatto la guerra di Putin»

Il giovane giornalista e scrittore, accolto a Bergamo dai parenti, racconta gli ultimi mesi a Mosca: «Tutti potevamo essere arruolati»

Filippo Valoti Alebardi: «Io, russo-bergamasco, non combatto la guerra di Putin»
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di Wainer Preda (foto in apertura di Matteo Zanga)

«Immaginate la vostra vita stravolta da un giorno all’altro. Immaginate di dover lasciare tutto in stand by, lavoro, famiglia, affetti, senza più certezze, senza più la sensazione di avere un futuro». Filippo Valoti Alebardi è giovane. Ha 31 anni e il doppio passaporto, russo e italiano.

È nato a Mosca, quando ancora c’era l’Unione Sovietica e dalla capitale è fuggito, causa guerra, nel settembre scorso. Perché lui, reporter freelance che ha lavorato anche per la Tass (l’agenzia di stampa ufficiale della Russia), ritiene «completamente sbagliato» combattere contro il presunto Satana ucraino, come impongono la propaganda di Putin e la mobilitazione che ti viene a cercare per spedirti laggiù.

Foto di Matteo Zanga

Bergamo è la sua seconda casa. Quella in cui il padre - imprenditore bergamasco che vive nella capitale russa - lo portava ogni anno in vacanza, e che oggi è la sua salvezza. È di famiglia alto borghese, Filippo. Bilingue, parla un ottimo italiano e perfettamente il russo, «con cadenza moscovita», sottolinea con orgoglio.

«Fino a qualche mese fa facevo parte di quel mondo. Ho nome e cognome italiani, ma gli amici russi mi chiamavano Filip. Sono nato e cresciuto a Mosca. Ho studiato prima alla scuola italiana dell’ambasciata e poi Scienze politiche all’Università. Mosca è casa mia. Perché casa non è solo un luogo fisico, ma ha anche un significato metafisico: è il posto che condividi con le persone che ti sono vicine. Quello in cui conti di costruire il tuo futuro, la tua famiglia, il tuo lavoro».

Filippo Valoti Alebardi, giornalista e autore del libro "Vite siberiane"
Filippo Valoti Alebardi, giornalista e autore del libro "Vite siberiane"

«Nella mia Mosca si viveva bene. Dopo i turbolenti Anni Novanta, nelle grandi città russe è arrivato il benessere. Una vita borghese, simile a quella occidentale. Negozi, cinema, ristoranti, c’era tutto, anche il lusso. Lenin e Louis Vuitton uno di fronte all’altro, sulla stessa piazza (la Piazza Rossa, ndr). Si viveva tranquillamente. Le guerre erano percepite come lontane, l’Occidente come sempre più vicino. Il patto non scritto fra Putin e i russi per anni è stato: voi non occupatevi di politica e io vi darò la stabilità». E, a quanto pare, a molti andava bene.

Poi però qualcosa è cambiato. Nel 2014, sulle televisioni di Stato, prende piede la propaganda anti-occidentale. Abbonda di retorica incendiaria. Lancia strali contro gli Stati Uniti e la Nato. Usa lo spaventapasseri dell’Alleanza Atlantica e degli americani che potrebbero costruire le loro basi sul territorio ex sovietico. Stimola l’orgoglio russo, ferito e umiliato dal crollo dell’Urss. Stigmatizza, frusta i vizi dell’Occidente depravato, corrotto e corruttore che vorrebbe portare il Paese al disfacimento. Accusa i «nazisti ucraini». È una propaganda subdola, strisciante. Perpetrata per anni. Incolpando l’Occidente di tutti i mali che affliggono la Russia.

Il 24 febbraio scorso, però, la storia e la vita dei russi prendono una piega diversa. «Quella mattina - ricorda Filippo - mi sono alzato e ho letto sul cellulare che (...)

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