Dopo la guerra partì

Fortunato Fasana, storia del partigiano bergamasco di ferro che divenne medico missionario

Il 27 aprile ’45, dopo un agguato con 14 vittime, fece fucilare quattro fascisti seriatesi sul sagrato della chiesa. Di quell’ordine non si pentì mai

Fortunato Fasana, storia del partigiano bergamasco di ferro che divenne medico missionario
Pubblicato:

di Paolo Aresi

«Era la mattina del 27 aprile e a Seriate entrava la colonna di partigiani liberatori, ma al tempo stesso stava arrivando la colonna fascista del Farinacci, in fuga dalla Bassa. I partigiani andarono da quelli di Farinacci con le armi abbassate, ma quelli che erano travestiti chi da frate, chi da prete, chi da suora, da sotto i vestiti tirarono fuori la mitraglietta. Uccisero quattordici partigiani. Si vide tuttavia che alcuni avevano sparato anche dagli abbaini delle case e si capì che erano persone di Seriate. In quel momento, Fortunato Fasana, detto “Renato”, era disceso dalla Valle Brembana per liberare Bergamo ed era stato nominato responsabile dell’ordine pubblico. Andò a Seriate, individuò i quattro che avevano sparato dagli abbaini, li portò sul sagrato della Chiesa parrocchiale e li fece fucilare».

È il racconto di Mario Pelliccioli, studioso della Resistenza, già vicepresidente dell’Anpi di Bergamo e socio dell’Isrec, docente in pensione di Italiano e Latino al Vittorio Emanuele e al Lussana. Pelliccioli ha scritto un libro su Cattolici e Antifascismo, dal titolo Resistere nella Tormenta, pubblicato in occasione della Liberazione da “iLibri di Molte Fedi”.

Pelliccioli è nato nel 1949, della Seconda Guerra Mondiale ha sentito l’eco, quando era bambino. «Mia madre - racconta - ha vissuto la guerra nella fame, andava a spigolare nei campi, a cercare funghi insieme alle sorelle. Due dei suoi tre fratelli hanno risalito l’Italia con l’Esercito Regio, con gli Alleati. Mio padre invece era soldato e dopo l’8 settembre fu arrestato, ma i tedeschi lo destinarono a un lavoro del tutto comodo come cuciniere. Non se la passò male. Ma certo della guerra si parlava molto quando io ero bambino. Fu comunque decisivo il Concorso nazionale per la cattedra di Lettere, alla prova orale c’erano dieci argomenti di mia scelta, uno era sulla Letteratura della Resistenza, i vari Calvino, Vittorini, Fenoglio... andai all’Isrec, incontrai Giuliana Bertacchi, cominciai a leggere... e mi appassionai».

Fortunato Fasana viveva a Seriate, ma proveniva da Canobbio, in cima al lago di Como, era di ottima famiglia. Durante il fascismo lui era molto giovane, ma aderì al regime. Spiega Pelliccioli: «Aveva una personalità forte anche da ragazzo, a un certo punto ebbe problemi con le autorità del partito; dopo la laurea venne sottoposto a un esame di “ortodossia” fascista da parte di una commissione e ne uscì indenne, ma poi dichiarò che se l’era cavata “Perché ne sapevo più di loro”. In quel momento si rese conto che il suo concetto di Patria, quella Patria per cui suo padre era morto in seguito all’intossicazione dovuta ai gas respirati al fronte, non coincideva con il concetto di Patria Fascista».

Pelliccioli spiega che da giovane medico, Fasana conquistò la gente di Seriate per via della sua totale dedizione, della grande generosità. «Correva ovunque lo chiamassero, a qualunque ora». Dopo l’8 settembre si avvicinò a Betty Ambiveri, grande seriatese, che organizzò il gruppo partigiano Decò e Canetta, intitolato ai due eroi seriatesi del Risorgimento. Il gruppo di Betty Ambiveri si inseriva in pieno nel mondo cattolico e impegnava diversi preti, tra i quali don Vismara. Fasana entrò in quel gruppo e si diede da fare per curare i fuggiaschi del campo di prigionia della Grumellina, dopo l’8 settembre del 1943. In quel tempo lavorava alla clinica Castelli, luogo dove poteva procurarsi il chinino, in quel tempo un valido sostituto degli inesistenti antibiotici.

«Allo stesso tempo aiutò tanti ricercati ed ebrei a fuggire in Svizzera, sempre per conto del gruppo di Betty Ambiveri. Lui aveva uno zio ferroviere che prestava servizio al confine... A un certo punto, disse a Betty Ambiveri che voleva impegnarsi di più e lei lo mandò da Mario Invernici, capo del gruppo di Bergamo di Giustizia e Libertà che lo utilizzò per tenere i rapporti con Milano. Una volta i fascisti lo fermarono, lui aveva una borsetta con documenti pericolosi; i militi fecero l’errore di lasciarlo in attesa senza portargli via la borsa e lui mangiò tutti i documenti. Lo arrestarono, ma con un’accusa di poco conto... a lui venne un gran mal di pancia, anche un po’ esagerato ad arte, e fu ricoverato al Niguarda. Qualcuno gli fece trovare un camice bianco sul letto, Fasana andò in bagno, si cambiò, mise il camice e fuggì. (...)

Continua a leggere sul PrimaBergamo in edicola fino a giovedì 12 maggio, o in edizione digitale QUI

Seguici sui nostri canali