L'intervista

Giorgio Fornoni, da Ardesio al mondo: «In prima linea 41 volte, per raccontare il dolore»

Il reporter della Val Seriana, 78 anni, ha passato la vita a documentare guerre, devastazioni, miseria e sfruttamento

Giorgio Fornoni, da Ardesio al mondo: «In prima linea 41 volte, per raccontare il dolore»
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di Bruno Silini

Guai a contestare a Giorgio Fornoni il fatto che il campanile di Ardesio sia il più bello del mondo, con tutte quelle sue pietre lavorate a mano. Il solo dubbio che tutto ciò non possa essere vero lo mette in agitazione. Lo incontriamo nella sua casa, che pare un Vittoriale in miniatura custodito da un pastore bergamasco di nome Set.

Come sta?

«Ho consumato parecchio. Non sembra, ma sono acciaccato».

Non sarebbe stato più comodo fare il ragioniere invece di girare il mondo per reportage impossibili?

«La mia era una famiglia povera. A 14 anni lavoravo alla cooperativa di Ardesio come garzone di bottega: dodici ore e mezza al giorno. Questo per quattro anni. A 18 divento il capo e a 23 anni mi sono detto: “O mi rimbocco le maniche o finisco per passare la vita a vendere salame”. E maturo la consapevolezza che nella vita servono due cose importanti».

Quali?

«La cultura e i soldi».

Quindi?

«Ho preso il diploma di ragioniere. Ho studiato Economia e commercio (senza dare la tesi) e, infine, ho aperto uno studio da commercialista in paese. Da subito ho avuto tanto lavoro, ma mi tormentavo nell’inquietudine. Non riuscivo a stare nella quotidianità. Mi sono preso due giovani molto bravi (pagati benissimo) che mi hanno tirato avanti la baracca mentre io mi avventuravo nel mondo, prima per partecipare a scavi archeologici (mia grande passione) e poi in cerca di storie. Con i soldi dello studio, ceduto alla fine del 2019, ho sponsorizzato i miei viaggi. Avrò speso qualche milione».

I suoi reportage su cosa si fondano?

«Sulla sofferenza di uomini e donne alle prese con guerre, devastazione, miseria, sfruttamento, pena di morte ed epidemie. Ogni volta era come vedere un Cristo in croce. Tanto più mi immergevo nelle loro storie, tanto più non riuscivo a fare niente di diverso. È stato come entrare in un imbuto. Raccogliere testimonianze e raccontarle dava un senso alla mia vita».

Come riusciva a resistere a tanta sofferenza?

«La sofferenza che vedi non te la levi di dosso. È come se avessi una gerla sulla schiena e ogni volta ci butto dentro un sasso che aumenta il peso che mi porto appresso. Solamente il tornare a casa mi disinfetta l’anima».

E come ci arrivava a documentare in presa diretta i lavoratori nelle piantagioni di coca di Sendero Luminoso in Perù o il subcomandante Marcos nel Chiapas?

«Tramite i miei amici missionari: Monfortani, Comboniani, Saveriani... Sono loro che vivono alla periferia della sofferenza umana».

La sua prima storia?

«È una domanda che non mi ha mai fatto nessuno. Devo pensarci. Probabilmente in Perù, sulla Sierra andina».

Quella, invece, più importante se la ricorda?

«Quando andai alla Kolyma, la zona più dura dei gulag, l’Auschwitz dell’Unione Sovietica, il massimo esempio di forza lavoro imposta da Stalin. Sopravvivere al lavoro massacrante, alle disumane condizioni di vita e al freddo terribile degli inverni era praticamente impossibile. La Kolyma è il più grande olocausto del Ventesimo secolo. Tra chi lavorava nelle miniere d’oro, all’epoca delle deportazioni di Stalin, ne scomparirono almeno tre milioni. Kolyma, il “cuore d’oro” della Russia nei primi anni del Novecento (...)

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