Sartori, che sogna due cose: diventare nonno e... l'Europa
Il 31 marzo scorso è stato un giorno speciale per Giovanni Sartori: il direttore tecnico dell’Atalanta ha compiuto sessant'anni. Lo abbiamo intervistato e abbiamo fatto tredici, come al Totocalcio quando si vince. Sono, infatti tredici le domande che abbiamo posto, ma nessuna di mercato. Perché sessant'anni sono un traguardo importante per l’uomo prima ancora che per il dirigente. Non è stato semplice, del resto lui stesso si definisce un tipo semplice e «quasi banale», eppure siamo riusciti a dipingere un quadro che racconta chi è Giovanni prima ancora di essere il dt Sartori. Gli avevamo promesso un’intervista senza domande sui prossimi colpi ma l’ultima è stata un mezzo trabocchetto. Come al solito è stato un abile difensore e ha cercato di non rispondere, ma abbiamo capito lo stesso: anche lui, come tutti noi, sogna l’Atalanta in Europa.
Giovanni Sartori, a sessant'anni si sente giovane o vecchio?
«Giovanissimo. Sicuramente mi sento più giovane di testa, il fisico sente gli anni e conta poco che io abbia giocato a pallone. Adesso faccio una vita sedentaria e viaggio molto in macchina, quindi dal punto di vista sportivo sono praticamente a zero. Testa, stimoli e motivazioni però sono quelle di un giovane. Mi sento veramente meno degli anni che ho».
Il giorno più bello che ha vissuto?
«Spero che debba ancora venire. Sono sincero, ne ho avuti davvero tanti ma cerco sempre di guardare avanti. La mia vita da dirigente è stata decisamente superiore a quella da calciatore, anche se ho vinto con il Milan lo scudetto della stella. Ma non c’è davvero paragone».
E quello più importante qual è stato?
«Idem, come sopra. Come uomo, sicuramente diventare papà è un momento molto importante della vita, adesso che sono arrivato a sessant'anni il prossimo traguardo sarebbe diventare nonno. Io e mia moglie Miriam abbiamo due figli, il primo si chiama Nicolò e l’altro Tommaso: sono grandi e realizzati, sia nel lavoro che nella vita, quindi chissà che un giorno non arrivino dei nipotini».
La città più bella dove ha vissuto?
«Bergamo, senza dubbio. Ho giocato a Venezia e certamente quella è una bella città, però non vivevo in centro ma a Mestre. Sono stato anche a Genova e in altre belle realtà, ma sicuramente Verona e Bergamo sono le due città più belle in cui ho vissuto e lavorato».
Nella sua scala dei valori, quanto conta il calcio?
«Tanto, tantissimo. Nel nostro lavoro c’è pochissimo tempo per coltivare altri interessi o hobby particolari, credo che la famiglia e il calcio siano il centro di tutto e assorbono pensieri e risorse al cento per cento. Sette giorni su sette, 24 ore al giorno».
È più quello che le ha dato, il calcio, o quello che le ha tolto?
«È un mondo che ti dà tantissimo ma che ti toglie anche molto a livello familiare. Però le emozioni e le soddisfazioni che arrivano sono qualcosa di unico, non credo ci sia qualcosa d’altro che, almeno a me, possa dare così tanto. Ci sono gioie, dolori, emozioni, soddisfazioni o insoddisfazioni. A volte capita di sbagliare un acquisto o di non centrare gli obiettivi oppure arrivano annate zeppe di belle vittorie. Ci sono un sacco di componenti che incidono e ancor più sensazioni che si intrecciano».
Un errore che, se potesse, non rifarebbe?
«Nella vita sono un uomo molto fortunato. Sono sposato con una donna che mi è sempre stata al fianco e capisce benissimo le mie esigenze. Questo è fondamentale perché chi ti sta vicino vive con te i fine settimana, le tensioni, le gioie e tutto il resto. Abbiamo due bravissimi figli, hanno trovato la loro strada quindi le soddisfazioni sono totali. Sia nel privato che nel lavoro. L’unico vero rimpianto è di essere forse arrivato al Milan troppo giovane: avevo 21 anni, sono rientrato dal Bolzano nella prima squadra della società dove avevo fatto il settore giovanile. In Serie A e con lo scudetto vinto sul campo. Mi sembrava di essere al Luna Park e invece dovevo affrontare tutto in modo diverso».
Qual’è il suo segreto nel suo lavoro?
«Non ci sono segreti particolari, amo molto il lavoro che faccio e cerco di farlo con il massimo dell’impegno e della dedizione. Sono molto esigente e critico con me stesso ma anche con i miei collaboratori. Cerco di mettermi continuamente in discussione, provo a migliorare e a crescere ogni giorno. Questa è la mia forza, questo sono io».
Ce l’ha un sogno?
«Uno solo? Ne ho davvero tanti. Credo che una persona non possa non avere sogni, se accade significa che è una persona piatta. Dirne uno solo è limitativo, ne ho di personali legati alla famiglia e di professionali legati all’Atalanta. Credo che l’età non conti, bisogna sempre continuare a sognare».
Divaghiamo un po’: ci racconta tre curiosità che nessuno conosce su di lei?
«Vediamo un po’... Sono talmente normale, quasi banale, che non ho cose particolari da svelare. Ci provo. Mangio pochissimo ma preferisco la birra al vino, che comunque bevo solo bianco. Carne o pesce vanno bene, purché siano molto buoni, e fuori dal calcio la mia grande passione è stata il tennis. In passato cercavo di giocare un po’, lo facevo nelle pause di lavoro ma da almeno dieci anni ho smesso e ho mollato tutto. Oltre alla famiglia c’è solo il calcio».
C’è un grazie che non ha mai detto?
«Devo dirlo a tantissime persone. A partire dai miei genitori che, fin da piccolo, mi hanno insegnato educazione e valori importanti. Poi arriva la mia famiglia e le persone che hanno creduto in me. Mi hanno dato e mi danno la possibilità di poter fare ciò che mi piace e mi realizza e complessivamente, essendo io molto credente, devo dire grazie a Dio per tutto quello che mi ha dato».
Chiuda gli occhi: qual è l’immagine più lontana che le viene in mente?
«Ho delle fotografie, a cui tengo molto, che mi ritraggono da bambino con un pallone in mano o tra i piedi all’oratorio di Bolgiano, frazione di San Donato Milanese. È una passione che mi accompagna da una vita».
Ora, invece, torni al presente: ci andiamo in Europa?
«Rimando alla risposta sui sogni. Più chiaro di così...».