È morto a 85 anni

Grazie, Roth, per ogni tua parola

Grazie, Roth, per ogni tua parola
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Una mossa alla Nathan Zuckerman – protagonista di alcuni suoi capolavori e suo alter ego – andarsene proprio l’anno del gran rifiuto dell’Accademia di Svezia che questo Nobel per la Letteratura nel 2018 non assegnerà a nessuno, che gli ha sempre fatto intravedere da lontano come un miraggio, ma che, alla fine, ormai possiamo dirlo, non gli ha concesso. Questa notte il New York Times ha dato la notizia e il suo biografo, Blake Bailey, in un tweet delle 5 del mattino ha scritto che Philip Roth è morto per insufficienza cardiaca, «circondato dai suoi amici di una vita che lo hanno profondamente amato». Il vuoto, in realtà, l’aveva già lasciato quando nel 2012 aveva annunciato il ritiro dalla propria attività di romanziere.

Le origini. Philip Milton Roth nasce a Newerk nel New Jersey il 19 marzo 1933 da una famiglia di origine ebraica proveniente dalla Galizia ed emigrata in America. Ed è proprio dalle sue origini che parte la sua narrativa. Laureato alla Bucknell University, consegue poi un master in letteratura inglese all'Università di Chicago e inizia l’attività di insegnante (figura ricorrente nei suoi personaggi) e parallelamente quella di scrittore. Una penna illuminata, ispirata, feroce e ironica. Un rapporto con la realtà quasi crudele che racconta in ogni pagina la meraviglia e la tragedia di essere vivi, consolante perché condivisa da ogni essere umano.

 

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Le opere. Premio Pulitzer nel 1997 con Pastorale Americana, romanzo monumentale, uno schiaffo a ogni riga, che racconta il suo rapporto e quello degli ebrei americani con l'America, oggi nelle mani di Trump, che definisce «un arrogante, bugiardo, narcisista e buffone». Come ne Il Lamento di Portnoy, romanzo del 1969, vera e propria pietra (miliare) dello scandalo della sua opera, pubblicato dieci anni dopo il suo esordio letterario, Addio, Columbus.

I temi e l'indiscusso talento. Un angolo sempre scioccante e beffardo nel raccontare l’esistenza, il sesso come la morale, l’assurdità e la salvezza del sogno americano, che viene ogni volta distrutto e ogni volta rinasce. Il rapporto tormentato con le donne, creature spesso spietate e distruttrici, uno spicchio della sua narrativa molto spesso frainteso e tacciato di maschilismo (anche se è difficile immaginare qualcosa di meno sessista del riconoscere al genere femminile qualcosa che sia altro, diverso, ulteriore dalla loro funzione creatrice e accudente). Una potenza nell’approfondimento dei temi che Roth miracolosamente compie addentrandosi nelle pieghe più nascoste e orribili dell’animo umano, che destabilizza il lettore ma lo consola, facendolo sentire meno solo di fronte a quei pensieri che non si possono dire ad alta voce ma che tutti abbiamo, contrariamente a quanto crediamo. Siamo tutti soli e quindi nessuno lo è, questo ha scritto Philip Roth, meravigliosamente, per cinquant'anni.

 

 

La sua letteratura è tutto, un’opera mastodontica (una trentina di romanzi) completa, innovativa. Il suo talento è divino, il modo di scrivere irraggiungibile. Chiunque abbia scritto due righe con la pretesa di farle leggere ad altri deve aver dubitato del proprio ardire, dopo aver letto cinque pagine di una qualsiasi opera di Philip Roth, che schiaccia per tecnica ed efficacia tutti gli altri, almeno i viventi, in poche righe. I lettori di Roth sanno che leggeranno con quadernino e matita a portata di mano per segnare quelle frasi bisturi che regala con un controllo e una precisione da chirurgo dell’anima e dei tempi. Anche se dichiarava di essere «dull», stupido, noioso, al di là della propria scrittura, con la punta della sua penna è andato dritto al cuore pulsante di ogni scena volesse raccontare.

Sulla morte, in un’intervista Philp diceva: «It stuns me. I’m familiar with it», quando era già rimasto tra i pochi vivi del suo tempo. Dei suoi ultimi tempi, sappiamo che ha vissuto nell’Upper East Side a New York, leggendo molto, incontrando amici e mangiando ebraico. Siamo tutti orfani di un gigante, uno scrittore indimenticabile. «Quando si pubblica un libro – diceva – è del mondo. è il mondo a editarlo». E per i tuoi libri, il mondo ti ringrazia.

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