«Gasperini? Mi fa correre tanto!»

Ho incontrato per caso Cabezas e gli ho spiegato cos'è l'inverno

Un incontro casuale nella scuola dove va a lezione d'italiano e in cui abbiamo parlato (poco) di Atalanta e (molto) della sua nuova vita a Bergamo

Ho incontrato per caso Cabezas e gli ho spiegato cos'è l'inverno
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di Andrea Rossetti

Bergamo non è che sia poi tanto grande. Cioè, è una città, ma mica una metropoli. E così può capitare che, passeggiando o girando per commissioni, ci si imbatta in qualcuno di famoso, o comunque noto. Tipo l'altro giorno: sono all'Imiberg, in via Santa Lucia, per portare a termine un lavoro e mi trovo davanti Bryan Cabezas, il ragazzino ecuadoregno che l'Atalanta ha portato a Bergamo nell'ultima sessione di mercato. Nonostante per lavoro (e passione) mi ritenga abbastanza ferrato sul tema Dea e dintorni, devo ammettere che non l'ho riconosciuto subito. Capiterà anche a voi: vedi un volto e capisci di averlo già visto, ma non riesci proprio ad abbinarlo a un nome. Poi qualcuno lo chiama: «Bryan, Bryan!», e scatta la scintilla. Certo, Bryan Cabezas.

Arrivato in città da poche settimane, la società ha deciso di aiutarlo ad ambientarsi facendogli frequentare delle lezioni di italiano. Due ore al giorno per più giorni a settimana. Per questo si trovava lì all'Imiberg. Incuriosito, mi avvicino e mi presento. «Piacere Bryan, como estas?» butto lì con il mio spagnolo da "aggiungi una esse a caso alla fine della frase e va bene così". Lui alza la testa dallo smartphone e mi sorride. È proprio un ragazzino, penso. Ricambia il saluto e chiede di parlare in italiano, «così mi alleno». Nulla da ridire, anche perché, per l'appunto, lo spagnolo mica lo so. E così iniziamo a chiacchierare un po'.

 

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A 9.900 km da casa. Bryan mi spiega che è contento di imparare la nostra lingua, vuole far di tutto per ambientarsi il prima possibile e il meglio possibile. È la sua grande occasione l'Atalanta, lo sa. Eppure è successo tutto così in fretta... Il suo primo contratto da professionista lo ha firmato soltanto due anni fa, a 17 anni, con l'Independiente del Valle. Ci ha messo poco a prendersi la maglia da titolare, diventando uno degli artefici dell'incredibile stagione vissuta l'anno passato dalla formazione di Sangolquì, con una vittoria in Copa Libertadores (la Champions sudamericana) sfiorata e sfumata soltanto in finale. Rapidissimo, ottimo mancino, buon fisico: Sartori se ne innamora e decide di portarlo all'Atalanta per una cifra di poco inferiore ai 2 milioni di euro. E ora lui si trova catapultato in un mondo lontano 9.900 chilometri da casa, da solo, ma con una gran voglia di correre dietro a un pallone. «È tutto diverso qua. Mi sto abituando piano piano» mi dice, sempre sorridendo. Del resto «è una grande occasione», ripete.

A Bergamo d'inverno nevica. È vestito come un 19enne qualsiasi: pantaloncini corti, maglietta alla moda, scarpette Nike multicolor e zainetto in pelle in spalla. E una delle prime cose che mi chiede è se a Bergamo fa freddo. «Beh, in inverno abbastanza» rispondo. «Ma tanto?». «Abbastanza. A volte nevica» spiego. E i suoi occhi si ingrandiscono un po'. «Cosa vuol dire?» mi domanda. E allora cerco di spiegargli cosa vuol dire che talvolta d'inverno, a Bergamo, nevica. Mica facile, soprattutto se lo devi spiegare a un ragazzo che arriva da una città, Quevedo, dove la temperatura media durante tutto l'arco dell'anno è di 27°, 28° gradi centigradi. Colgo dunque l'occasione per chiedergli qualcosa in più della sua terra e della sua famiglia. «Io sto bene in Ecuador, mi piace tanto. Ma qui è calcio vero. E pagano tanto di più (ride, ndr). La mia famiglia però è là e spero che presto verranno a trovarmi. Magari anche con la mia fidanzata» mi dice con un sorriso che sa di speranza. Verranno sicuramente, lo rassicuro. Mi dice poi che ha un fratello che studia informatica e che lui preferisce mille volte il pallone ai libri (tutto il mondo è paese), «ma studiare l'italiano mi piace, così posso parlare con tutti anche nello spogliatoio».

 

 

«Mai corso così tanto!». Già, lo spogliatoio. Effettivamente all'Atalanta gli unici madrelingua spagnoli sono Carmona, Pinilla e il Papu Gomez, tutti e tre trentenni (o quasi), sposati e con figli. Lo aiutano, mi dice Bryan, ma giustamente hanno la loro vita. La società lo sta supportando molto e, un passo alla volta, lui si sta abituando a tutte le novità di questa nuova avventura. Un esempio? Gli allenamenti: «Gasperini è bravo, ma mi fa correre tanto! In Ecuador non si corre così. Secondo me da nessuna parte si corre così tanto» mi dice. Aggiunge subito, però, che sta imparando un sacco di cose e che è felicissimo di allenarsi con giocatori così bravi. Tipo? «Il Papu è il migliore. Ma anche Paloschi e Kessie son davvero forti». Per uno che è alle prime armi con la nostra lingua, se la cava. Si fa capire. Ma è pressoché perfetto quando deve usare i termini calcistici. Gasperini è stato chiaro: le prime parole da imparare sono quelle, tipo "centrocampista offensivo di sinistra", "contropiede", "taglia in mezzo" e "vai sul fondo". Prima il dovere poi il piacere.

Bryan e Facebook. Tra una chiacchiera e l'altra si è fatto tardi. Deve tornare a casa. «Vado a piedi, abito qui vicino», proprio ai piedi di Città Alta. Prima di salutarlo, in un rigurgito adolescenziale, gli chiedo di aggiungermi su Facebook. «Non posso!» mi spiega con la faccia preoccupata. Ha troppi amici e il social non gli permette di aggiungerne altri. Ogni tanto ne elimina qualcuno e accetta alcune richieste in sospeso, ma senza alcun criterio, mi spiega. È un po' stupito dal fatto che, negli ultimi mesi, siano tante le persone che gli hanno chiesto l'amicizia. «Stai diventando famoso, devi aprirti una pagina pubblica» gli dico. «Giusto, ma prima è meglio se mi alleno» mi risponde sorridendo. E in quella risposta c'è tutto l'entusiasmo di Bryan Cabezas, un giovane ecuadoregno pronto a conquistarsi Bergamo. Anche se qua, d'inverno, nevica e fa freddo. Ma ora almeno lo sa.

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