L'intervista

Il poeta dialettale Maurizio Noris: «Scrivo poesie in bergamasco per farmi voler bene»

Sessantasei anni, originario di Comenduno di Albino, è uno dei poeti in lingua dialettale più rappresentativi a livello nazionale

Il poeta dialettale Maurizio Noris: «Scrivo poesie in bergamasco per farmi voler bene»
Pubblicato:

di Bruno Silini

Bergamasco di Comenduno di Albino, Maurizio Noris (66 anni) è uno dei poeti in lingua dialettale più rappresentativi sul territorio nazionale. Ha vinto una quarantina di concorsi di poesia ed è stato grande amico del poeta Franco Loi, del quale ha raccolto l’ultima video-intervista prima che morisse.

È vero che i poeti vivono sulle nuvole e sono poco pragmatici?

«Francamente, non penso proprio. Anzi, i poeti hanno sempre la necessità di costruire delle forme di connessione tra le cose che scrivono e la quotidianità».

Perché scrivere poesie in dialetto che in pochi capiscono?

«Fino a 25 anni ho sempre scritto in lingua italiana, anche se non ero poi tanto contento».

E poi cosa è successo?

«Un mio grande amico, un sindacalista a L’Arena di Verona, mi dà un libro: Libera nos a Malo di Luigi Meneghello. Quando l’ho letto ho capito il valore dell’uso della lingua prima, la lingua madre, il dialetto. Anche se l’imprinting era avvenuto tempo prima, quando avevo 2 o 3 anni. È uno dei pochissimi ricordi che ho della prima infanzia. Con mia mamma si andava tutte le domeniche sera alla casela, la casa di mio nonno sul Serio. Mia mamma si metteva sempre in cerchio, seduta, insieme alle sue sorelle. E parlavano. Lei mi aveva preso e mi aveva messo in grembo e mi ero addormentato. Ma sentivo il suono della sua voce. Sul suo petto sentivo il suono della lingua madre. Un suono che mi ha segnato dal punto di vista anche psicologico, nella dimensione del linguaggio profondo. La poesia è là. È la lingua del profondo e io uso il mio linguaggio profondo per fare poesia. Quel suono dialettale intercettava una dimensione di cura, ovvero mia madre che mi teneva abbracciato. Da qui il pensiero che io scrivo poesie nella mia lingua madre perché è un modo per farmi volere bene. Non mi interessa tanto diventare famoso. Mi interessa che le persone leggano quanto scrivo per entrare in relazione con me. Voglio che comprendano che la mia poesia passa originariamente dalla sperimentazione di un affetto».

Ha mai conquistato una donna con una poesia?

«Sì, sì...».

Com’è andata?

«Le donne sono, secondo me, affascinate dall’uso di lingue che non sono le loro e dalla possibilità di costruire delle interpretazioni con i suoni, i ritmi e le evocazioni. I poeti, in questo senso, sono molto fortunati».

Ma anche lei, come Dante, ha una sua Beatrice? Oppure sono schemi superati?

«Ho delle Muse, ma non sono connotabili dal punto di vista della condizione di genere».

Il sentimento che più innerva le sue poesie?

«È il tema della cura. In questi ultimi anni mi ci sono misurato molto (...)

Continua a leggere sul PrimaBergamo in edicola fino a giovedì 4 marzo, o in edizione digitale QUI

Seguici sui nostri canali