L'intervista

Il prof Ivo Lizzola verso la pensione: «Quando penso ai miei studenti sono ammirato e grato»

Faccia a faccia con il docente di Pedagogia sociale e del conflitto all'Università di Bergamo, che il prossimo settembre chiuderà la sua carriera

Il prof Ivo Lizzola verso la pensione: «Quando penso ai miei studenti sono ammirato e grato»
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di Bruno Silini

Quando si entra nell’ufficio 24 del professor Ivo Lizzola, nel complesso dell’Università di Bergamo in Sant’Agostino, colpiscono subito le pile di tesi accatastate una sopra l’altra. Un ordine geometrico che produce l’effetto, per il diverso cromatismo dei dorsi, di un’opera di astrattismo puro alla Paul Klee o alla Piet Mondrian. Venticinque anni di tesi che non intende portare a casa poiché incorrerebbe nell’ira funesta della moglie Luisa.

Professore, a settembre va formalmente in pensione (di fatto chiude a giugno) dopo una vita passata a insegnare. La pensione, come sosteneva il papà di Guccini nell’Avvelenata, «è davvero importante»?

«Io non ho mai pensato di andare in pensione. Da questo punto di vista, la bergamaschità è profondamente radicata in me. Sono curioso di vedere come si ridisegna la mia vita».

Qualche idea su cosa farà da grande?

«Adesso sono un vecchiotto e le energie vengono un po’ meno. Da tempo sono convinto che si devono fare le cose bene; quindi non possono essere molte, troppo variegate, e devono essere sempre dentro delle storie. Io non faccio il consulente, non mi sento neanche all’altezza in questo ruolo. Dunque starò dentro le storie di persone a cui può essere utile l’accompagnamento di una mia competenza e di una mia esperienza. Adesso faccio un’attività diffusissima nelle carceri con gli operatori della giustizia e i detenuti. Poi, lavoro moltissimo con gli operatori sociali delle cooperative, con gli assistenti sociali. Non starò con le mani in mano».

Che insegnante è stato?

«Un insegnante che ha fatto fare esperienze piuttosto impegnative, motivando a studiare, a essere creativi e anche ad assumere responsabilità dirette. Gli studenti dei miei esordi educativi, alle medie di Casnigo, hanno scritto al Presidente della Repubblica, hanno pubblicato lettere sui giornali sulle questioni d’attualità. Sapevano chi era Chico Mendes, sindacalista dei seringueiros, poi ucciso. Credo di aver loro insegnato a partecipare alla vita del mondo».

Esigente?

«Sì, ma anche molto allegro. Un insegnante che passava, certamente, buona parte del suo tempo a scuola con i suoi allievi, ma anche molta parte fuori a incontrare esperienze, luoghi del lavoro, a comprendere le competenze, per poi tornare a studiarle a scuola. Infine, un insegnante che piano piano cercava di farsi da parte».

Il nuovo secolo ha coinciso con lo spartiacque fra la cultura analogica e digitale. Come sono cambiati i suoi studenti? E, vivendo il cambiamento, ha reimpostato il suo modo di insegnare?

«Lo stile profondo, no. Però sicuramente ho dovuto tenere molto conto di questo mutamento (...)

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