Il ricordo del mitragliamento di Colzate: nonna Imma era su quel treno della morte
29 gennaio 1945: fu una strage, 24 morti: «Il rumore degli aerei, poi il mezzo si fermò. Paura e confusione. Vidi un uomo colpito a morte»
di Fabio Gualandris
Lunedì 29 gennaio 1945, data tragica per la Valle Seriana e per la signora Immacolata Marcassoli, 96 anni, di Nembro. L'abbiamo incontrata nella ricorrenza di questo giorno al monte Bue, sopra Cene, dove da qualche anno vive circondata dall’affetto dei sui cari: figli, nuore, genero, nipoti e pronipoti. I suoi ricordi, a distanza di 75 anni, restano intatti grazie alla trasmissione orale della testimonianza che ha saputo mantenere viva tra i suoi cari ma anche in occasioni pubbliche. Cosa accadde quel 29 gennaio, solo due giorni dopo che le truppe sovietiche della 60ª Armata del 1º Fronte ucraino liberarono il campo di concentramento di Auschwitz (data che oggi celebriamo come Giorno della memoria)? La mattina di quel giorno, quando la Seconda Guerra Mondiale volgeva al termine, portò in Val Seriana distruzione e morte fra tanta povera gente. Il trenino, proveniente da Bergamo e diretto a Clusone, venne attaccato in territorio di Colzate da quattro caccia bombardieri americani che lo mitragliarono: 24 morti e 26 feriti gravi il tragico bilancio. Tra i passeggeri di quel convoglio la signora Immacolata, allora 22enne, probabilmente ultima testimone di quel viaggio, il suo primo in treno. «Mi chiamo Immacolata Marcassoli, sono nata a Nembro, visì a la Madóna del Sócarèl, l’8 agosto 1923».
Perché si trovava su quel treno?
«Avevo da poco perso, per motivi bellici, il lavoro al “Crespi”, ci lavoravo da quando avevo 14 anni. Dopo qualche tempo mi si presentava una nuova opportunità di lavoro al sanatorio di Groppino, il 29 gennaio 1945 fu il giorno di partenza per quella nuova esperienza, era la mia prima volta su un treno e non potevo certo immaginare quello che sarebbe successo di lì a poco».
Viaggiava in compagnia?
«Viaggiavo sola, non c’era nessuno che conoscevo. La sola compagnia era la mia valigia con dentro un carico prezioso: la farina gialla che le amiche mi avevano chiesto di portare da casa: “Quando vieni a Piario, se puoi porta la farina per fare la polenta che ci piace tanto”».
Come furono quei momenti?
«Sentii il rumore degli aerei avvicinarsi, ne vidi uno, poi seppi che erano quattro. Puntavano alla motrice del treno, così tutti i convogli si sarebbero bloccati. Il trenino si fermò, ci fu paura e confusione, vidi proprio davanti alla carrozza un uomo colpito a morte e tanti passeggeri che per salvarsi si riparavano sotto il treno. Io non mi mossi, rimasi immobile al mio posto, abbracciata alla mia valigia. “Se mi va bene, bene – pensavo – altrimenti morirò anch’io sul treno”, temevo infatti che la vita per me fosse davvero finita. Dopo un po’ salirono i barellieri, mi chiesero “Cosa ci fa lei ancora qui sul treno?”. Risposi: “Dove volete che vada?”. “Venga venga” mi dissero chiedendomi poi dov’ero diretta. Una volta saputo che la mia destinazione era Groppino per lavorare al sanatorio, mi rassicurarono che quello era un posto sicuro: “La portiamo noi e lei è apposto”. Così fecero, accompagnandomi con l’autoambulanza al mio capolinea. Lì riposai un po’, poi iniziai il mio nuovo lavoro».
Cos’ha pensato dopo l’attacco?
«“L’era mia la me ura gna gli ura”, ma fu una strage, i morti furono 24. Ora sul posto di quell’attacco 24 pali rossi testimoniano l’accaduto, fui invitata anch’io all’inaugurazione di quel luogo del ricordo, ci andai volentieri».
Ci furono conseguenze?
«Alcune schegge provocate dall’attacco degli aerei mi colpirono i piedi. Non sentii subito dolore, capivo che entravano, ma non facevano male e quasi me ne dimenticai. Dopo molto tempo, dissi a mia nuora Loredana che mi facevano male i talloni dei piedi, non sapevo il perché. Mia nipote Michela si ricordò della storia del treno che le avevo raccontato e delle schegge che mi avevano colpito i piedi. Il medico confermò che effettivamente si trattava di una scheggia metallica. Venne faticosamente estratta ambulatorialmente a Vertova dal dottor Bonomi (correva l’anno 2000, ndr)».
Che lavoro faceva a Groppino?
«Ero addetta al pollaio del sanatorio. Erano oltre trecento galline, forse quattrocento; c’erano pure i tacchini, che facevano uova più grosse. Uova e frutta erano la cura migliore per i pazienti di quell’ospedale, tutte le primizie arrivavano in quel luogo e c’era pure il fornaio. Anch’io seguivo quella dieta a base di frutta e soprattutto di uova, riuscendo addirittura (visto il periodo storico) a mettere su qualche chilo: mi ritenevo fortunata, quasi premiata dopo tanta paura. Ricordo che in quei tempi di guerra, da Nembro si andava nella Bassa bergamasca a rifornirsi di patate, alimento base... e tutti dimagrivano».
Faceva la pendolare?
«No, vivevo a Groppino con le mie amiche-colleghe, mio padre saltuariamente veniva a trovarmi. Ci restai fino a quando, conclusa la guerra, mi richiamarono al “Crespi” di Nembro subito dopo la sua riapertura. Ripresi il treno, questa volta sicuro, per tornare al mio paese. Poi mi sposai e arrivarono tre figli, cinque nipoti, cinque pronipoti...».
Dall’abitazione della signora Immacolata al monte Bue si vede il Santuario di Altino dove ogni anno dal 1945 si ricorda con la “Messa del voto” quel tragico fatto. Si tratta di una Messa “speciale”, tanto che il santuario mariano, chiuso per la pausa invernale, viene aperto ai fedeli in via del tutto straordinaria. Si intende infatti ringraziare la Vergine Maria per aver protetto e salvato, a Colzate nel 1945, i sopravvissuti alla strage, tra i quali i giovani di Vall’Alta impiegati nelle aziende chimico-minerarie di Gorno e Selva. Ringraziamo «nonna Imma», come la chiamano i suoi nipoti, per il sorriso con cui ci ha accolto e raccontato questo capitolo drammatico della sua storia, lasciandola alla sua quotidianità fatta di relazioni, passeggiate, letture, preghiera e gioco delle carte: a scopa è “quasi" invincibile!