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Il venticinquenne Daniel Moioli racconta perché ha deciso di fare il bergamì

Munge quindici brune, le porta in alpeggio e fa formaggi. «Molti prati erano in abbandono. Sto facendo tanti sacrifici, ma penso al futuro»

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di Paolo Aresi

Daniel si alza alle cinque e mezza e va nella stalla per la prima mungitura, su a San Vito. Poi porta il latte nel suo piccolo caseificio, prepara le nuove formaggelle. È l’inizio di una giornata di lavoro impegnativo che si conclude poco prima che il sole tramonti. Daniel Moioli ha venticinque anni e una grande passione per la terra, per gli animali: la vita del contadino è la sua vocazione.

Daniel lo incontriamo qui a San Vito, nella valletta del torrente Carso che scende da Selvino, davanti a questa cascina vecchia di secoli, dove si trovano il piccolo caseificio e il fienile, la casa di proprietà della signora Giuseppina Tribbia, che ha 88 anni e una salute che fino a un mese fa era ottima, «Però negli ultimi giorni il cuore non è più in forma, a far le scale mi viene un po’ di affanno, cosa vuole, sarà la gioventù. Io sono di Scanzorosciate, mi sono sposata tanti anni fa e sono venuta qui… e sono ancora qui. La cascina era ormai vuota, mio marito è morto. Un giorno è arrivato questo ragazzo che aveva il sogno di fare il contadino, mi ha chiesto se gli concedevo il fienile e la stalla… non potevo dirgli di no».

L’estate è appena cominciata, Daniel è qui in questo pomeriggio di sole, il piccolo trattore rosso sonnecchia sotto il pergolato.

È un posto bellissimo, qui a San Vito.

«È molto bello, ma se nessuno cura questi prati, arrivano i rovi, la boscaglia. Io ho preso tredici ettari in affitto, per il pascolo e lo sfalcio. Più o meno, un ettaro dà da mangiare a una vacca e io ne ho quindici da sfamare. I prati sono in questa zona, a Trevasco, San Vito, Predale… Poi sono andato con le vacche anche al Piazzo di Albino, siamo rimasti per tre settimane, l’erba era buona, dicono che da tanti anni non vedevano più le vacche al Piazzo e c’erano persone contente. La gente è contenta quando vede gli animali, le mandrie, i prati ben tenuti».

Sta facendo il fieno.

«Sì, il primo taglio. Bisogna darsi da fare perché il tempo è buono, l’erba cresciuta, bisogna tagliare e raccogliere finché fa bello».

È un’erba buona.

«Molto buona. È un’erba spontanea, ci sono diverse specie, non è un prato coltivato che presenta soltanto uno o due tipi di erba. In questa zona esiste una forte biodiversità: tagliare il prato regolarmente significa proteggerla perché, ad esempio, si impedisce a una specie di crescere troppo e di soffocarne un’altra. Io credo che qui sia presente una decina di tipi di erba per metro quadrato: si dice che sono prati spontanei “politipi”, tanti tipi diversi di erba. L’ottanta per cento dei prati che conduco erano in abbandono, rischiavano di scomparire, presi dalla boscaglia. Li concimo con il pascolo e con il letame, lo scorso anno ho ingrassato delle zone, quest’anno altre. La qualità dell’erba migliora».

Un ragazzo di vent’anni che sceglie di fare il contadino non è un fatto consueto.

«No, certo, ma è una passione che ho da quando ero piccolo».

I suoi genitori sono contadini?

«No, fanno gli operai. Ho un fratello che guida il camion. I miei nonni erano contadini, ma non li ho conosciuti… Però credo che in qualche modo la passione mi sia arrivata, fin da piccolo. Dopo le medie, ho fatto agraria, mi sono diplomato».

E poi?

«E poi ho fatto esperienza di allevamento e di alpeggio in Trentino e in Svizzera, la prima volta avevo sedici anni. Ho imparato molto. E quindi ho pensato di avviare un’attività mia, mi sono guardato intorno, qui, nella nostra zona, poi ho trovato questa stalla, questa cascina di San Vito. È stata determinante. La signora Giuseppina mi ha ascoltato, si è consultata con il figlio e poi ha deciso di ospitarmi, senza chiedere un soldo. Sì, loro sono stati bravi, generosi. Davvero decisivi. Ho avviato la mia piccola azienda agricola quattro anni fa, ho cominciato con due Brune Alpine. Si chiama Azienda Agricola Cornalì, che era il soprannome che avevano i miei nonni. Mi è sembra bello, una continuità».

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Qual è la differenza fra il Trentino, la Svizzera e la Bergamasca?

«Là sei aiutato perché vieni considerato un operatore che mantiene il territorio, che quindi è importante anche per il turismo. Da noi non è così anche perché il turismo è di certo meno importante».

Riesce a mantenersi con questa attività?

«Sì, abbastanza, io penso che in prospettiva, a patto di lavorare tanto, e bene a maggior ragione possa rendere quello che serve per vivere, anche nella prospettiva della famiglia».

Ma le ragazze non sono affascinate dalla vita del contadino.

«A quello che ho capito, c’è stato un periodo in cui questa vita era considerata brutta, scomoda, povera. Certamente non era ambita, anzi, tutti cercavano di cambiare mestiere. Ma le cose oggi sono differenti. Vedo che i miei amici e le mie amiche sono interessati al mio lavoro, lo apprezzano… Certo, la gente ammira il paesaggio, le mucche, la stalla… in pochi si rendono conto di quanto lavoro e quanto sacrificio ci siano. Tanta fatica, fisica e non soltanto».

Come è una sua giornata?

«Mi alzo alle 5.30, mi sistemo, faccio la prima mungitura (a mano), poi devo girare le formaggelle, pulire il caseificio, tirare insieme il fieno per caricarlo dai prati sul trattore, poi portarlo nel fienile, poi l’ultima mungitura, governare la stalla…».

Va in alpeggio?

«Sì, vado sulle Orobie, sui mille e seicento metri, lì preparo un formaggio d’Alpe che può ricordare il formaggio di monte. In alpeggio ho una baitella con il bagno, l’acqua corrente, il pannello fotovoltaico per la luce».

Le piace questa vita?

«Mi piace molto. Sto facendo tanti sacrifici, non posso prendermi nemmeno un giorno di vacanza, ma penso anche al futuro. Vorrei che la mia attività andasse avanti per potere avere anche un collaboratore, per creare lavoro, creare economia. Io credo che nel ritorno all’attività agricola in montagna ci sia parte del futuro. Sia per l’economia, sia per conservare i territori e la biodiversità. C’è bisogno di un ritorno del lavoro in montagna, altrimenti questa ricchezza andrà perduta».

Ma papà e mamma sono contenti della sua scelta di fare il contadino?

«Hanno dovuto adattarsi, io sono stato molto determinato. D’altronde ci credevo tanto… io penso che un giovane debba fare quello che sente, quello che desidera davvero. All’inizio i miei erano perplessi, ma adesso hanno capito che è la mia strada».

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